lunedì, luglio 16, 2007

another one bites the dust...

Uccide moglie e figli poi si suicida - LASTAMPA.it
La tragedia è avvenuta a Piedimonte
Matese, in provincia di Caserta
NAPOLI
Quattro cadaveri sono stati trovati in un’abitazione a Piedimonte Matese, in provincia di Caserta. Secondo le prime indagini dei carabinieri un uomo avrebbe soffocato la moglie e due figli e poi si sarebbe suicidato con una coltellata al petto.

Il rinvenimento è avvenuto un un’abitazione in via Trutta, a Piedimonte Matese. In casa c’erano i cadaveri di Maria Karini Baldini, di 38 anni, e dei figli Davide, di sette anni, e Martina Iannarelli, di quattro anni, nonchè di Luigi Iannarelli, impiegato di 35 anni, marito della donna e padre dei due bambini.

Quest’ultimo, secondo i primi rilievi dei carabinieri, verosimilmente nel corso della scorsa notte avrebbe soffocato la moglie e i figli e si sarebbe tolto la vita con una coltellata al petto. Al momento non si conoscono i motivi del gesto.

sabato, luglio 14, 2007

Sostegno a padri separati, progetto di legge

Quotidiano di informazione online della provincia di Imperia



Eugenio Minasso

Sostegno a padri separati, progetto di legge di Minasso (AN)

“Ho presentato, e sostengo fortemente, il progetto di legge a tutela dei padri separati. Molti padri separati vogliono vivere pienamente e con responsabilità la propria paternità, ma sono penalizzati da un pregiudizio sociale, fortemente radicato anche nella prassi giudiziaria". A dichiararlo è Eugenio Minasso (nella foto), parlamentare di Alleanza Nazionale, che ha presentato un disegno di legge in merito. "Al padre è solitamente imposto un dovere prevalentemente economico - continua Minasso - mentre i diritti riconosciuti nell’esercizio del ruolo educativo e formativo dei propri figli sono ancora pochi. La presente proposta di legge fissa, innanzitutto, il principio che lo Stato italiano riconosce l'importanza del ruolo paterno, congiuntamente a quello materno, per la crescita psicofisica dei minori nelle diverse fasi della loro vita. Inoltre la proposta si pone l’obiettivo di assicurare ai padri separati in situazione di difficoltà, il diritto ad un sostegno per consentire loro di recuperare e rafforzare la propria autonomia, attraverso la realizzazione di Centri di assistenza e mediazione familiare”.


Di seguito, il testo completo del progetto di legge sulle norme per la tutela dei padri separati presentato in parlamento da Eugenio Minasso.


"Onorevoli Colleghi!

Con riferimento alla cura dei figli, nel nostro Paese è andata, purtroppo, consolidandosi una prassi che identifica il ruolo materno come esclusivo riferimento educativo per i figli minori. Al contrario, molti padri separati vogliono vivere pienamente e con responsabilità la propria paternità, ma sono penalizzati da un pregiudizio sociale, fortemente radicato anche nella prassi giudiziaria. Nella quasi totalità dei casi di separazione tra i coniugi, infatti, i padri si vedono sottrarre repentinamente i propri figli, nonostante la recente approvazione della legge n. 54 dell’8 febbraio 2006 sull'affidamento condiviso dei genitori, e nonostante il riconoscimento dell'importanza di entrambi i ruoli genitoriali, la dichiarazione della parità di diritti tra i sessi e la tutela dei minori.

Al padre è solitamente imposto un dovere preminentemente 'economico', e minori diritti nell’esercizio del 'ruolo educativo e formativo dei propri figli'. In più del novanta per cento dei casi, il padre è tenuto a versare un assegno di mantenimento per i figli (pari in media a 400 euro mensili) e in circa il settanta per cento dei casi la casa d’abitazione viene assegnata alla ex moglie, proprio in quanto affidataria dei figli minori. Se si considera che oltre la metà degli uomini separati con figli minori appartiene alla categoria degli insegnanti, impiegati ed operai, e che l'orientamento dei giudici è di fissare in 'un terzo dello stipendio' il mensile che il padre deve versare per il mantenimento dei figli, è evidente che non solo le donne, ma anche gli uomini che si trovano in questa condizione sono a rischio povertà. L'uomo, innanzitutto, deve cominciare con il cercare una nuova casa in grado di accogliere, anche temporaneamente, i suoi figli, finendo spesso per tornare a vivere con i propri genitori, con quel senso di sconfitta e frustrazione che questo comporta, trovandosi nell'impossibilità pratica di svolgere il ruolo genitoriale come, invece, vorrebbe.

In considerazione di quanto premesso, la presente proposta di legge fissa, innanzitutto, il principio che lo Stato italiano riconosce 1'importanza del ruolo paterno, congiuntamente a quello materno, per la crescita psicofisica dei minori nelle diverse fasi della loro vita; questo riconoscimento è essenziale e determinante per la concreta realizzazione di pari opportunità di diritti tra uomo e donna, nonché per la tutela dei minori, che devono poter mantenere un rapporto significativo con entrambi i genitori anche dopo la loro separazione.

La necessità di confermare espressamente questo principio deriva dalla consapevolezza della situazione di estrema difficoltà economica e psicologica spesso sofferta dai padri a seguito di procedimenti di separazione. Infatti, frequentemente gli effetti dei contenziosi sui padri separati, li pongono in condizioni di precarietà economica tali da costituire un impedimento al godimento del diritto al ruolo genitoriale, cosi come per il minore a beneficiare della presenza di entrambi i genitori.

La presente proposta si pone, inoltre, l’obiettivo di assicurare ai padri separati in situazione di difficoltà il diritto ad un sostegno per consentire loro di recuperare e rafforzare la propria autonomia, attraverso la promozione ed il sostegno alla realizzazione di Centri di assistenza e mediazione familiare a favore dei padri separati in situazione di difficoltà.

In conclusione, con questa proposta, che intende dare risposte concrete alle giuste istanze finora raccolte unicamente dalle varie associazioni dei padri separati, lo Stato italiano promuove tutte quelle iniziative atte a ristabilire condizioni di effettiva parità di diritti tra uomo e donna nello svolgimento del proprio ruolo genitoriale in regime di separazione, nonché di tutela del minore nel beneficiare della presenza di entrambi i genitori. In particolare, l’articolo 1 della proposta indica nel riconoscimento dell'importanza del ruolo paterno e nella necessità del mantenimento del rapporto tra genitori e figli anche in caso di separazione, i principi che costituiscono il fondamento della presente proposta di legge.

L'articolo 2 individua quale obiettivo della legge il rafforzamento ed il recupero dell'autonomia materiale e psicologica del padre separato, affinché possa adeguatamente svolgere il proprio ruolo genitoriale, mentre l'articolo 3 specifica le azioni da promuovere e sostenere per il raggiungimento di questo obiettivo. L'articolo 4 individua nei Centri di assistenza e mediazione familiare, la cui realizzazione è affidata dallo Stato e dalle Regioni alle associazioni iscritte all'albo del volontariato o alle organizzazioni non a scopo di lucro di utilità sociale, lo strumento più idoneo a sostegno dei padri separati in situazione di difficoltà, anche attraverso la realizzazione di programmi di assistenza e mediazione familiare, volti a fornire un aiuto concreto ai padri separati che si trovino in condizioni di disagio, sia esso economico o psicofisico. L’articolo 5 prevede norme in materia di copertura finanziaria degli oneri recati dal provvedimento.

Articolo 1 - (Principi)

1. La Repubblica riconosce l’importanza del ruolo materno e del ruolo paterno nelle diverse fasi della crescita psicofisica dei minori e promuove tutte le azioni necessarie a favorire il mantenimento di un rapporto significativo dei figli con entrambi i genitori anche dopo la separazione dei coniugi.

Articolo 2 - (Finalità)

l. La Repubblica garantisce ai padri separati la realizzazione di interventi a sostegno del recupero e della conservazione della loro autonomia e per lo svolgimento di un'esistenza dignitosa, presupposto necessario per l'esercizio del proprio ruolo genitoriale.

Articolo 3 - (Azione regionale)

1. Per le finalità di cui all'articolo 2 il Governo:
a) promuove protocolli di intesa tra Enti locali, Istituzioni ed ogni altro soggetto operante a sostegno dei padri separati ed alla tutela dei minori, diretti alla realizzazione di reti e sistemi articolati di assistenza in modo omogeneo sul territorio;
b) favorisce e sostiene attività di tutela e di solidarietà ai padri separati in situazione di difficoltà, attraverso la realizzazione, d’intesa con le Regioni, di Centri di assistenza e mediazione familiare.

Articolo 4 - (Centri di Assistenza e Mediazione Familiare)

1. Nell’ambito degli interventi di cui all’articolo 2, in particolare, le
Regioni possono istituire dei Centri di assistenza e mediazione familiare.
2. La costituzione dei Centri può avvenire, anche in convenzione con Enti locali singoli o associati, ad opera di associazioni iscritte all'albo del volontariato o di organizzazioni non a scopo di lucro di utilità sociale che hanno almeno cinque anni di esperienza nello specifico settore.
3. Tra le attività realizzate nei Centri sono previsti programmi di
assistenza e mediazione familiare, promossi dagli stessi Centri o da enti locali, singoli o associati, finalizzati a fornire assistenza e sostegno ai padri separati in situazione di difficoltà, ed in particolare:
a) colloqui preliminari per individuare i bisogni e fornire loro le prime indicazioni utili;
b) colloqui informativi, consulenza ed assistenza legale;
c) supporto psicologico tramite percorsi personalizzati di uscita dal disagio e di recupero della propria autonomia;
d) strutture di alloggio nelle quali possono essere ospitati quei padri separati che a causa della separazione hanno perso la propria abitazione e che si trovano in condizioni di grave disagio economico.
4. I Centri svolgono attività di iniziativa culturale e sociale dirette all'informazione e alla sensibilizzazione in merito al pieno coinvolgimento di entrambi i genitori nella educazione dei figli.

Articolo 5 - (Copertura finanziaria)

1. Per la realizzazione delle finalità di cui alla presente legge la dotazione annuale del Fondo per le politiche della famiglia di cui all'articolo 19, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e' incrementato di 50 milioni di euro.
2. A copertura dell’onere derivante dal comma 1, si provvede mediante riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2007-2009, nell’ambito dell’unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell’Economia e delle Finanze per l’anno 2007, parzialmente utilizzando l’accantonamento relativo al medesimo Ministero.
3. Il Ministro dell’Economia è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio".

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Certamente positivo l'interessamento dell'On Minasso, sopratutto per la parte introduttiva alla legge, che sottolinea l'importanza del padre e della relazione dei figli con il padre.
Sopratutto con figli minori in terera eta' si deve assolutamente tutelare la relazione paterna con i figli, per favorire l'attaccamento del figlio al padre che per tutta la vita sara' un importante collante della relazione padre-figlio, che giustamente lo stato deve tutelare.

Tuttavia, gia' all'articolo uno, si parla di "rapporto significativo" dei figli con entrambi i genitori.
Se consideriamo che gia' esiste la legge 54/2006 del 8 febbraio che definisce il "rapporto equilibrato" dei figli con entrambi i genitori un diritto del figlio, nonche' il fatto ormai evidente a tutti che negli stessi tribunali questo principio (della equilibrata frequentazione) viene regolarmente disatteso, quel "significativo" al posto di "equilibrato" non appare precisare nulla rispetto alla legge dell'affido condiviso, come invece fa la proposta Costantini.
Auspichiamo che comunque la sensibilita' all'argomento possa far confluire anche il contributo dell'On Minasso nella richiesta ferma di una applicazione ortodossa del codice gia' esistente.

Infatti il primo e fondamentale intervento che lo Stato deve porre in essere con urgenza e' proprio la applicazione del principio di "equilibraro rapporto" dei figli con ciascun genitore.
Non e' diversamente possibile tutelare la relazione di un figlio con il proprio padre, se il padre non convive con il figlio in modo da consentire l'attaccamento e la condivisione naturale delle esperienze di vita. Sopratutto quando i genitori prendono strade diverse, magari iniziando nuove convivenze o comunque rifiutando completamente qualsiasi tipo di rapporto con l'altro genitore.

In altri termini, prima di tutto, lo Stato deve provvedere a non introdurre con il proprio intervento squilibri nelle relazioni dei figli con ciascun genitore, limitando le liberta' personali di padre e figli, imponendo periodi minimalistici di "visita" in luogo di una naturale e spontanea "convivenza alternata" con ciascun genitore, che si verrebbe ad instaurare naturalmente qualora lo Stato e i Tribunali non ci fossero.

Quindi, prima di fare, lo Stato deve stare ben attento a non disfare.

Inoltre, la mediazione e i centri di mediazione, che giustamente vengono sostenuti dalla proposta di legge, hanno necessita' di trovare se non altro una azione giudicante neutra per poter rendere utlie la mediazione. Se regolarmente i tribunali eliminano il padre, confinando e limitando arbitrariamente i tempi di frequentazione padre-figlio, impedendo al padre di vivere con il figlio a casa propria, quelle situazioni cosiddette conflittuali saranno sempre e comunque agite in tribunale, invece di essere risolte in modo collaborativo con la mediazione.

Va anche detto che esistono gia' strutture pubbliche e private dedicate al sostegno e alla mediazione, come ad esempio i servizi sociali del comune, i consultori delle ASL che includono Neuropsichiatria infantile e servizi di sostegno all'infanzia, nonche' numerosi centri di mediazione privata presso strutture di volontariato o dei servizi sociali.

Indubbiamente la mediazione e dunque le strutture che operano la mediazione debbono essere rafforzate e finanziate, perche' e' senz'altro la mediazione piuttosto che il percorso giudiziale, la via maestra per gestire in modo costruttivo e tutelante quelle difficolta' della famiglia che oggi troppo spesso sfociano in una separazione tanto devastante quanto inutile a portare rimedio nelle crisi genitoriali. Pero' si deve sicuramente agire per determinare "come" questre strutture e soprattutto questi "operatori" debbano svolgere il loro compito, perche' sta li il problema.

Come prima cosa devono i tribunali con le sentenze delineare la pari condivisione dei ruoli genitoriali, mentre ora viene espressamente dato un compito "primario" alla madre, per iniziativa dei tribunali proprio per individuare un genitore "di riferimento" in barba alla legge.
Inoltre, questa cultura della mamma onnipotente e sola genitrice e' stata radicata nella cultura non solo dei tribunali, ma anche e sopratutto in tutti gli operatori del sociale che sono stati formati proprio per dare sostegno. Il padre non viene considerato importante proprio da questi operatori, che in caso di conflitto o di vero e proprio "mobbing genitoriale" considerano comunque sufficiente che il figlio mantenga una relazione positiva con la sola madre.

Difficilmente dunque si potra' "mediare" se chi deve svolgere questo delicato incarico, non ha presente il modo in cui si possa tutelare la relazione del padre con i figli, ma e' stato educato a considerare comunque primaria e sufficiente la relazione dei figli con la madre.

Viene anche da pensare che un intervento "di sostegno al padre" finanziato dallo Stato per porre rimedio alle storture che lo stato stesso ha operato nei tribunali, sia un tipico segno dell'interventismo statale, che prima crea il guasto e poi si appresta a portare sostegno.

A monte, prima di ogni altra azione, sono i tribunali e la rete di servizi e operatori oggi in funzione, che debbono dare immediata applicazione alla legge esistente e riconoscere la fondamentale importanza della relazione tra padre e figli. Lo stato non deve limitare il padre per agevolare la madre, spesso agevolata da terzi, contro la relazione padre-figlio.

La relazione padre e bambino

Il punto dello psicologo - La relazione padre e bambino - Psicologia online - Grandain.com



In questi ultimi decenni abbiamo quindi assistito ad una rivalutazione del ruolo dei papà nell’educazione

Il punto dello psicologo - Cari genitori, oggi voglio focalizzare la vostra attenzione sulla figura del papà e del rapporto che instaura con i suoi figli. Tutto quello che dirò circa la relazione padre-figlio verrà estrapolato da ricerche che sono state fatte nell’ambito della teoria dell’attaccamento, che studia il legame che si crea tra il bimbo e i suoi caregivers ( coloro che si prendono cura del bimbo , come i genitori, i nonni, gli insegnanti , etc.) .
Una delle maggiori omissioni nell'ambito della teoria dell'attaccamento è la scarsa attenzione dedicata al ruolo del padre. Nonostante alcuni studi abbiano dimostrato che i padri si rivelano figure di attaccamento competenti, anche se a volte poco partecipi, vi è ancora molto da indagare riguardo l'attaccamento verso la figura paterna.
Nella ricerca di Schaffer ed Emerson (1964), all'inizio del legame di attaccamento la madre è sicuramente la figura selezionata dal bambino con maggiore frequenza, anche se è evidente l'importanza rivestita dagli altri caregivers, e in particolare dal padre. Mentre all'inizio solo il 30% dei bambini hanno sviluppato una relazione di attaccamento con la figura paterna, all'età di 18 mesi il valore ottenuto è del 75%.
Anche se nella maggioranza dei casi la relazione di attaccamento più intensa è quella madre-bambino, il padre può diventare il caregiver verso il quale il piccolo direziona l'attaccamento, anche nel caso in cui è disponibile solo per parte della giornata. Inoltre, il padre possiede la stessa capacità della madre di somministrare le cure parentali.
La scelta del padre come una delle principali figure di riferimento è determinata sia dalla sensibilità alle richieste infantili, sia dalla presenza di un'interazione giocosa e positiva di cui il bambino è il principale protagonista. Il caregiver che sa stimolare piacevolmente il bambino e lo sa far divertire viene cercato dal piccolo, che ne sentirà la mancanza, quando non sarà presente.
Alcuni studi hanno indagato se i processi interattivi, determinanti per lo sviluppo di una relazione di attaccamento sicura con la madre, siano efficaci anche nei casi in cui la figura di attaccamento principale è il padre.
A questo proposito, alcuni studiosi hanno dimostrato che bambini di 3 mesi che interagiscono con padri sensibili e attenti ai loro bisogni, manifestano maggiore sicurezza con la figura paterna, 9 mesi più tardi.
In questi ultimi decenni abbiamo quindi assistito ad una rivalutazione del ruolo dei papà nell’educazione e nell’accudimento dei figli: sempre più spesso i mariti si alternano alle mogli e si assiste ad una salutare interscambiabilità degli ruoli.
Ecco alcuni consigli per vivere la meglio il rapporto padri-figli:
- Dedicare ogni giorno attenzione ai propri bimbi, attraverso giochi , letture , uscite al parco, etc.
- Coccole, baci, gesti di affetto: i bambini hanno bisogno di contatto fisico poiché dà loro sicurezza e serenità. Attenzione a non essere invadenti però: le coccole vanno date quando il bimbo le richiede!
- Parlare con i vostri figli delle loro ansie, di ciò che fate durante la giornata o di ciò che fanno loro. E inoltre, ascoltare con attenzione ciò che i bambini ci dicono con le parole e con i loro comportamenti.
-Se i genitori sono separati , non parlare mai male del coniuge davanti ai figli.
- I genitori devo essere concordi sulle regole di condotta da far rispettare ai figli: avere comportamenti opposti confonde il bambino e sminuisce l’autorità del genitore che è stato smentito dalla condotta opposta del coniuge.
- Se avete degli orari lavorativi impossibili, organizzatevi in modo da passare lo stesso un po’ di tempo con i vostri figli. Il tempo passato lontano da loro non ve lo rende nessuno, e una volta che sono cresciuti non si può tornare indietro.
- Le vacanze sono un momento importante da dedicare ai figli senza problemi di orario e di stress : sfruttatele!

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Elena Caraccio

giovedì, luglio 12, 2007

quel limite invalicabile.

Quando intorno al 78 a Zurigo i movimenti di piazza tipo “68″ imperversavano per la città e sembrava che la polizia non ne potesse venire a capo, i cittadini hanno fatto sapere al governo cantonale che ciascun maschio abile al servizio militare dai 20 ai 50 anni, disponeva in casa di un fucile militare con 40 cartucce e ci avrebbero pensato loro.

In una settimana i “rivoluzionari” sono spariti dalla circolazione.

TocqueVille - La città dei liberi

e ora ci impiccano.

Bce: «Rischi sui prezzi. Interverremo» - Corriere della Sera

«le prospettive per la stabilità dei prezzi rimangono soggette al rialzo». Lo afferma la Banca Centrale Europea nel consueto Bollettino mensile, precisando che «in prospettiva, resta necessario intervenire con tempestività e fermezza per assicurare la stabilità dei prezzi a medio termine».


Tradotto in soldoni, aumenteranno ancora i tassi e martelleranno quegli stati dalla finanza facile che con il debito pubblico mettono in circolo liquidita' che non corrisponde all'economia reale.

Un richiamo evidente rivolto al governo italiano, che invece di risanare ha incrementato la spesa pubblica e il debito, che oggi mette in circolo soldi e incrementa il PIL ma domani si vedra' costretta a pagare con interessi superiori.

E chi lo dovra' pagare il conto: le generazioni future.
Mandiamo a quel paese il carrozzone, che facciano default e torniamo al pane e salame che oggi tolgono dalla bocca dei nostri figli. Mandiamoli tutti a casa. Default.

dirigismo e analfabetismo economico.

Donne in pensione a 65 anni Sarebbe vera parità? - LASTAMPA.it

La battaglia condotta bypartisan per le pari opportunità in politica ha fruttato finora solo qualche ministero senza portafoglio. Ma le donne ritrovano, loro malgrado, al centro del dibattito politico. Il tema è l’allungamento dell'età pensionabile, causa emergenza conti pubblici.

L'Italia, com’è noto, è sull'orlo del declassamento per colpa del suo debito pubblico e le spese in uscita ogni anno per le pensioni ammontano al 15% del PIL. Circa il 25% di questa somma è destinata alle pensioni under 65. Finora esclusa dai provvedimenti che, per gli uomini, hanno progressivamente innalzato l’età della quiescenza fino ai 65 anni, l’altra metà del cielo è ora nel mirino. Si calcola, infatti, che trattenere un solo anno al lavoro le donne vorrebbe dire risparmiare fino a 500 milioni di euro. Il nostro Paese, poi, ha, fra gli altri record, quello dell’età di uscita dal mondo del lavoro più bassa in Europa.

In Austria l'età minima pensionabile é 65 anni per tutti (maschii e femmine), in Francia oscilla tra i 60 e i 65 (unisex), in Germania è di 65 anni, in Svezia é posticipabile fino ai 70. A favore dell’innalzamento dell’età pensionabile per le donne si cita volentieri un dato statistico-matematico. Una donna, che ha una vita media di oltre 80 anni, va in pensione a 60 e quindi grava sulle casse dell’Inps per una ventina. L’uomo, la cui vita media è più bassa, 75 anni, andando in pensione a 65, pesa sui conti pubblici per la metà del tempo, 10 anni.

Il dibattito è apertissimo e la discussione ancora una volta elude schieramenti e ideologie, da Emma Bonino che aderisce, in nome della logica, a Stefania Prestigiacomo che parla di «parità a perdere».

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Certo che facendo i conti sulla longevita' media, restituendo al pensionato i contributi versati e amministrati dal fondo pensione, non vi sarebbero squilibri. Ma ovviamente non e' cosi', perche' per anni la pensione - ai tempi dell'eta' dell'oro del debito pubblico - veniva determinata in funzione dell'ultimo stipendio e non di quanto contribuito. Inoltre, ricordiamoci dei pensionamenti anticipati, della cassa integrazione e delle procedure di mobilita'. Ora che i lavoratori precari sono in minoranza rispetto ai pensionati di ferro, qualcuno si e' reso conto che i flussi delle casse pensione stanno andando a rischio default.

Beh, potevano pensarci prima, visto che i privilegi concessi, per tradizione italiana non si toccano mai, resta il fallimento come via di uscita. Le nuove generazioni saranno autorizzate ad effettuare espropri proletari nei confronti dei pensionati, oppure votare le leggi sull'eutanasia. Mors tua vita mea.

Gia', perche' se e' chiaro che sotto i 65 anni pensione nada, e' anche vero che non basta dire che si deve lavorare per fare in modo che le persone lavorino e contribuiscano. Non e' spostando l'eta' pensionabile che magicamente i nonpiu'pensionabili si ritrovano a lavorare. Semplicemente il numero di posti di lavoro disponibili e' quello determinato dal mercato, ma incrementando il numero di lavoratori, saranno in percentuale di meno quelli che lavorano, diminuendo dunque il potere contrattuale di tutti i lavoratori. Ovvero, chi invecchia con stipendi alti verra' bonariamente indotto a cercarsi un altro lavoro, ovvero togliersi dalle palle. Chi cerca un lavoro, per eccesso di domanda si vedra' costretto a proporre prezzi sempre decrescenti, contribuendo sempre meno alle pensioni dei pensionati d'oro. Gli unici che continueranno a lavorare a stipendi ben pasciuti saranno sempre e soltanto i nonpensionabili che lavorano per lo stato, gia' fagocitanti oltre il 50% del PIL con propensione a contrattare per avere aumenti superiori al mercato privato. E intanto la spesa pubblica corre e si incrementa contribuendo alla crescita del PIL ma gravando sempre e soltanto su quelli che gia' non arrivano alla fine del mese. Le famiglie tirano la cinghia e si aiutano, quando non si danno le coltellate e si cannibalizzano a vicenda.

Di questo passo la gente non solo non paghera' piu' le tasse, ma andra' all'assalto dei baroni di stato che si sono messi in tasca il loro futuro. La rivoluzione del precariato e' alle porte.

E se addirittura anche lo statalista Scalfari si incazza, evidentemente siamo alla frutta.

la tradizione siculo-pakistana

Amato: «Picchiare le donne? È nella tradizione siculo-pakistana»

Picchiare le donne? Roba della «tradizione siculo-pakistana». Sì, siculo-pakistana, Giuliano Amato dice proprio così.

La Cdl chiede le sue dimissioni, l’Unione lo condanna, la Finocchiaro gli ricorda che «questo tipo di violenza non ha confini etnici, geografici e religiosi» e persino il leghista anti-immigrati Borghezio lo critica. Poche ore dopo Amato cerca di mettere una pezza: «Parlavo da siciliano di una Sicilia che non esiste più». Ma, in attesa delle reazioni da Islamabad, a Roma la bufera è già scoppiata.

E pensare che paradossalmente la frase incriminata viene pronunciata in un convegno su islam e integrazione. «Nessun Dio autorizza un uomo a picchiare la donna. È una tradizione siculo-pakistana che vuole fare credere il contrario».
E a poco serve la precisazione pomeridiana: «Da bambino, figlio di famiglia siciliana, ho conosciuto una Sicilia che, insieme alle tante cose positive che amavo, era anche la tradizione patriarcale e maschilista a cui ho fatto riferimento. Ci sono capolavori del cinema e della letteratura su questo, ma per fortuna quell’aspetto degli anni Settanta oggi non esiste più».

L’elenco degli «offesi» e degli «sconcertati» è lunghissimo e inizia con Salvatore Cuffaro, sorpreso «per il superficiale disprezzo nei confronti di una tradizione ricca come la nostra». «È vero che la Sicilia è ricca di influssi culturali ereditati dal passato - spiega il presidente della Regione -, però l’identità dell’isola è stata caratterizzata in maniera decisiva dall’esperienza cristiana per cui il sincretismo con il Pakistan è sbagliato. Prendiamo atto che Amato fa outing.»

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Probabilmente, avendo rinunciato a contrastare la diffusione della droga arrendendosi all'eccesso di domanda, il nostro ministro degli interni potrebbe essere stato soggetto a intossicazione passiva - un evidente rischio parlamentare - che deve aver annebbiato il senso del giudizio, gia' ampiamente messo alla prova dall'eta' media di chi dovrebbe gestire lo stato.

Effettivamente lo stato dimostra di sostituirsi perfettamente al padre, maschilista, con sublime deficienza, diffondendo la droga e l'insubordinazione generale dentro le scuole, che educano precocemente il cittadino al non rispetto della legge. E poi lo lasciano fare.

Da questo delirio contro l'autorita' paterna discende la meticolosa organizzazione della raccolta dell'immondizia, che tende a raccogliersi in strada, per offrire riparo e risorse ai molti extracomunitari che non sanno piu' dove mettere la droga.

Osserviamo anche dell'efficiente raccolta di fondi per mantenere il carrozzone statale e i suoi tromboni, che pontificano sulla cultura siculo-pakistana, ponendo minimum-tax e inversione dell'onere della prova per chi - pezzente - non ricava abbastanza reddito da pagare le tasse necessarie per mantenere lorsignori.

Per fortuna che tra una boutade e l'altra non perdono di vista la necessita' di incrementare le spese e papparsi banche e aziende, passando agli amici non-siculi le commesse di stato e gli incarichi. Ricordandosi anche di mandare a casa chi della finanza o della polizia potrebbe avere da eccepire.

Con tutti gli amici rimasti a questo esecutivo, mancavano giusto i siculo-pakistani all'appello. Chissa' mai che ora si inneschi quel regicidio necessario per la liberazione.

Libera nos a mato.

mercoledì, luglio 11, 2007

L'idea di una società cristiana

di Thomas Stearns Eliot

Prefazione


Le tre conferenze che, leggermente rivedute nella forma e riordinate nella materia, compongono questo libro furono pronunciate nel marzo 1939 per invito del Master e dei Fellows del Corpus Christi College di Cambridge, della Fondazione Boutwood. Desidero esprimere a tutti questi professori i miei ringraziamenti per l'onore e il privilegio che mi hanno fatto.

Le note furono aggiunte mentre rivedevo le conferenze per la stampa.

A intraprendere questo studio fui mosso dal sospetto che i termini consueti nei quali discutiamo di questioni internazionali e di teorie politiche servano soltanto a nascondere a noi stessi la vera situazione in cui versa la civiltà contemporanea. Avendo scelto d'occuparmi di un problema così vasto, dovrebbe essere chiaro fin d'ora che le mie pagine hanno poca importanza di per sé. Possono essere utili solo se intese come contributo individuale a un dibattito che dovrà impegnare molte persone ancora per molto tempo.

Sarei presuntuoso se pretendessi d'essere originale; al massimo questo saggio potrà presentare in una sistemazione originale idee che prima non mi appartenevano e che dovranno diventare proprietà di chiunque saprà usarne. Io devo molto a conversazioni fatte con alcuni amici che si sono dedicati allo studio di questi problemi e di altri simili. Ma citarne i nomi potrebbe avere come effetto che si addossasse a loro la spinosa responsabilità dei miei propri errori di ragionamento.

Devo molto anche ad alcuni libri apparsi di recente; per esempio, a Beyond Politics di Christopher Dawson, a The Price of Leadership di John Middleton Murry, ed agli scritti del Rev. V. A. Demant, il cui Religious Prospect apparve troppo tardi perché potessi valermene. Ed ho un grande debito anche verso le opere di Jacques Maritain, specialmente Humanisme integral.

Confido che il lettore capirà fin da principio che questo libro non auspica una "rinascita religiosa" nel senso che conosciamo già. Mi sentirei impreparato a un compito dì questo genere - ed inoltre mi pare che l'espressione implichi un possibile divorzio tra sentimento e pensiero religiosi, che io non accetto, o che non trovo accettabile nelle nostre difficoltà di oggi.

È stato scritto recentemente (sul "New English Weekly" del 13 luglio 1939) che, "in tutte le società gli uomini sono vissuti per merito di istituzioni spirituali (quali che fossero), d'istituzioni politiche, e, s'intende, economiche. Di tanto in tanto, in epoche diverse, essi furono propensi a riporre la loro fiducia principalmente in una delle tre, come fosse la vera base della società; ma non è mai accaduto che escludessero del tutto le altre due, perché ciò non è possibile".

Questa è una distinzione importante e, nel suo contesto, preziosa; ma vorrei fosse chiaro che nelle pagine che seguono io non mi preoccupo delle istituzioni spirituali nei loro differenti aspetti, ma di una sistemazione di valori e di un orientamento del pensiero religioso che devono infallibilmente condurre ad una critica dei sistemi politici ed economici,


CAPITOLO PRIMO


La constatazione che occorrerà certamente molto tempo per risolvere un determinato problema e che esso impegnerà l'attenzione di molti per più d'una generazione non è un motivo per posporre lo studio. In tempi d'emergenza potrà ben darsi che tornino a tormentarci proprio i problemi che abbiamo procrastinato o ignorato, piuttosto che quelli non risolti con successo. Le nostre difficoltà momentanee devono sempre essere superate in un modo o nell'altro; ma i nostri problemi costanti sono difficoltà d'ogni momento.

Io sono convinto che è ora il momento di rivolgere tutta la nostra attenzione all'argomento trattato in queste pagine, se vogliamo sperare di liberarci mai dalle nostre perplessità immediate. È un problema urgente perché è fondamentale: è quest'urgenza che persuade una persona come me a rivolgersi, su un tema al di là dei miei interessi soliti, ad un pubblico uso a leggere i miei scritti su altri temi.

Senza dubbio tratterei il mio problema molto meglio se fossi più versato in ognuno dei diversi campi di studio che dovrò toccare. Ma io non scrivo per studiosi, scrivo per gente come me. Alcuni difetti della mia esposizione saranno compensati da alcuni vantaggi, giacché il criterio per giudicare una persona, sia mio studioso o no, non è dato dalle sue cognizioni specifiche, ma da quella somma che risulta dal suo modo di pensare, di sentire, di vivere, e di osservare gli altri esseri umani.

La pratica della poesia non dà necessariamente la saggezza nè aumenta il numero delle cognizioni, ma dovrebbe perlomeno conferire alla mente un'abitudine di valore universale; l'abitudine di analizzare il significato delle parole, proprie ed altrui. Nell'usare l'espressione "idea1 d'una società cristiana", non intendo in primo luogo una concezione derivata dallo studio di società che potremmo anche chiamare cristiane, ma qualche cosa che si può trovare soltanto cercando di penetrare i fini ai quali una società cristiana deve tendere per meritare questo nome. Da una parte non limito l'applicazione del mio termine ad una perfetta società cristiana sulla terra; dall'altra parte, escludo che certe società possano chiamarsi così solo perché continuano a professare, in un modo o nell'altro, la fede cristiana o perché conservano qualche vestigio di pratica cristiana. Perciò, trattando della società contemporanea, non mi occuperò principalmente dei difetti, dei sorprusi o delle ingiustizie che vi si riscontrano, ma piuttosto dell' "idea", se ve n'è una, a cui corrisponde la società in cui viviamo, e del fine a cui essa tende.

Sta a noi accettare o rifiutare l'idea di una società cristiana; ma accettandola, dobbiamo trattare il cristianesimo con un rispetto intellettuale assai maggiore di quanto siamo soliti fare, considerarlo come una questione di pensiero piuttosto che di sentimento individuale. Le conseguenze di un simile atteggiamento sono troppo gravi per venire accettate da chiunque, perché i risultati d'un cristianesimo non soltanto sentito, ma pensato, possono rivelarsi scomodi all'atto pratico. Considerare la fede cristiana in questo modo - ciò che non implica accettarla, ma solo capire i veri elementi in gioco - significa vedere che la differenza fra l'idea di una società neutra (cioè quella in cui noi viviamo) e l'idea di una società pagana (quella da cui gli araldi della democrazia aborriscono) ha poca importanza, in definitiva. Per ora non m'interessano i mezzi per realizzare una società cristiana, e neppure tengo in modo particolare a mostrarla desiderabile: ma m'importa molto, invece, spiegare in che cosa differisce dalla società attuale. Comprendere la società in cui viviamo deve interessare chiunque pensi ed abbia coscienza di sé. Ma i termini correnti che usiamo per descrivere la nostra società, i raffronti con altre società, che inducono noi, le "democrazie occidentali", ad elogiarla, servono soltanto ad ingannarci e ad offuscarci le idee. Parlare di noi stessi come d'una società cristiana, in opposizione alla società tedesca o russa, è un abuso di linguaggio, col quale vogliamo solo dire che presso di noi nessuno viene punito per una professione formale di fede cristiana. Ma, così facendo, evitiamo di guardare in faccia i valori reali che dominano la nostra vita, non soltanto, ma anche di riconoscere la somiglianza che esiste tra la nostra società e quelle che esecriamo: perché, altrimenti, dovremmo ammettere che gli altri fanno più e meglio di noi. Ho, insomma, il sospetto che il nostro disprezzo per il totalitarismo contenga una buona dose d'ammirazione per la sua efficienza.

Generalmente il teorico della politica oggigiorno, anche quando è cristiano, non si occupa dell'eventuale struttura di uno Stato cristiano. L'interesse suo è per uno Stato genericamente giusto, e, quando non è già fautore di un altro sistema politico, tende ad accollare il nostro sistema attuale come suscettibile di miglioramenti, ma non di mutamenti fondamentali. Ciò che scrivono invece coloro che partono da una premessa di natura teologica è più importante per il mio argomento. Non alludo a chi vuole infondere uno spirito cristiano vago, e qualche volta sminuito, nella nostra vita quotidiana, o a chi in momenti di emergenza cerca di applicare principi cristiani a particolari contingenze politiche; voglio intendere piuttosto i sociologi cristiani che criticano il nostro sistema economico alla luce della morale cristiana. La loro opera consiste nel proclamare in generale, e provare nei particolari, l'incompatibilità fra i principi cristiani ed una gran parte delle nostre usanze sociali. Si rivolgono a quello spirito di giustizia e di umanità dal quale i più si dicono ispirati, e si appellano anche al buon senso, dimostrando che gran parte del nostro sistema è non soltanto iniqua, ma in definitiva anche inefficiente, atta solo a portarci al disastro.

Molti mutamenti che questi scrittori invocano, pur dettati da principi cristiani, si raccomandano ad ogni persona intelligente e disinteressata e non richiedono una società cristiana per venire realizzati, né fede cristiana per essere accettati, anche se la loro attuazione aumenterebbe le possibilità per l'individuo cristiano di vivere il proprio cristianesimo. Ma, qui, il mio interesse per le innovazioni economiche resta secondario, e secondario quello per la vita del cristiano devoto. Prima di ogni altra cosa, io mi preoccupo di una modificazione del nostro atteggiamento sociale che permetta l'avvento di una società degna del nome di cristiana. Sono convinto che un simile mutamento porterebbe come necessaria conseguenza anche dei mutamenti nel modo in cui sono organizzati il commercio, l'industria, la finanza, che faciliterebbero, invece di ostacolare come ora, una vita di devozione per quelli che ne sono capaci.

Tuttavia il mio punto di partenza è diverso da quello dei sociologi2 e degli economisti, e ciò benché io dipenda da loro per cognizioni particolari e benché una pietra di paragone per giudicare la mia società cristiana dovrebbe consistere appunto nella sua capacità a realizzare le riforme che essi propongono. Infatti, quella trasformazione nello spirito di una società che non può documentare la propria esistenza altro che con un nuovo frasario profetico è un pericolo costante da cui dobbiamo guardarci.

Il mio discorso tocca anche il tema proprio a un'altra classe di scrittori cristiani: gli specialisti di diritto ecclesiastico. Anche qui l'argomento dei rapporti tra Chiesa e Stato non m'interessa principalmente. Tranne che nei momenti in cui la stampa se ne serve a scopo scandalistico, non è questo un soggetto che appassioni l'uomo comune; quando poi il suo interesse viene risvegliato, egli non conosce sufficientemente i fatti per aver diritto ad un'opinione. Il mio tema è preliminare al problema dei rapporti tra Chiesa e Stato, sebbene implichi questo problema nei suoi termini più ampi e nel suo più generale interesse.

È un atteggiamento diffuso considerare lo Stato, quale esiste, come un dato di fatto, e domandare: “E la Chiesa? ”. Ma prima di esaminare le relazioni fra Stato e Chiesa dovremmo chiederci: “E lo Stato? ”. Vi è un senso in cui si possa parlare di uno Stato cristiano? O in cui lo Stato possa essere considerato come cristiano? Ché, anche se la natura dello Stato fosse tale, di per sé, da non tollerare la qualifica di cristiano o non cristiano, sarebbe pure evidente che gli Stati esistenti possono differire l'uno dall'altro a tal punto che le relazioni fra Chiesa e Stato possono variare dall'ostilità aperta ad una cooperazione più o meno armonica, nella medesima società, di istituzioni differenti. Con le parole Stato cristiano non intendo una determinata forma politica, ma piuttosto uno Stato adatto ad una società cristiana, o lo Stato che la società cristiana svilupperebbe di per sé.

Vi sono molti cristiani, lo so, che non credono alla necessità di rapporti definiti tra Chiesa e Stato per realizzare una società cristiana; nelle pagine seguenti elencherò i motivi che mi fanno pensare il contrario.

Ma a questo punto vorrei dire che né i classici trattati inglesi su Chiesa e Stato, né le controversie contemporanee sull'argomento mi danno l'aiuto di cui ho bisogno, perché tutti gli scritti più antichi, anzi, tutti gli scritti sino ad oggi, presuppongono l'esistenza di una società cristiana, a parte qualche studioso contemporaneo che dà per dimostrato che la nostra è una società pagana. Sono proprio questi postulati che io voglio mettere in discussione.

L'opinione su quel che si potrà fare in avvenire per il nostro paese, e, incidentalmente, anche su quali dovrebbero essere i rapporti fra Chiesa e Stato, dipenderà dal giudizio che noi ci faremo sulla situazione presente.

Ora noi possiamo individuare tre momenti positivi nella storia: quello in cui i cristiani sono una minoranza nuova in una società di tradizioni positivamente pagane (una situazione che non potrà presentarsi in un futuro prevedibile); quello in cui tutta la società può chiamarsi cristiana, sia riunita in un sol corpo, sia divisa in sètte (e la fase della divisione potrà seguire o precedere quella dell'unione); e finalmente il momento in cui i cristiani non possono essere considerati che una minoranza statica, o in corso di estinzione, entro l'ambito di una società che ha cessato di essere cristiana. Abbiamo noi raggiunto il terzo momento? Tanti saranno i pareri quante le persone che si porranno il quesito. Ma a me pare che anzitutto due sono i punti di vista. Il primo, che la società cessa di essere cristiana quando vengono abbandonate le pratiche religiose, quando gli atti degli uomini non sono più regolati da principi cristiani, ed il benessere mondano, individuale o collettivo, diviene l'unica ambizione cosciente. L'altro punto di vista, più difficile ad essere compreso, è che la società non cessa d'essere cristiana finché non diventa qualcosa di positivamente diverso. Io credo che oggi la nostra cultura sia generalmente negativa, ma che, per quel poco ch'essa ha di positivo, sia tuttora cristiana. Non ritengo che possa perdurare così, perché una cultura negativa perde qualsiasi capacità di realizzazione in un mondo dove energie economiche e spirituali dimostrano l'efficienza di culture forse pagane, ma positive; e ritengo che la nostra scelta sia fra la creazione di una nuova cultura cristiana e l'accettazione di una cultura pagana.

Entrambe implicano mutamenti radicali; ma sono convinto che i più di noi, se fossero messi di fronte, ad un tratto, a tutti i cambiamenti che saranno realizzati soltanto nel corso di parecchie generazioni, sceglierebbero il cristianesimo.

Non mi attendo che tutti siano d'accordo nel definire negativi l'organizzazione e lo spirito attuale della nostra società, che a suo modo conseguì risultati notevoli nel secolo scorso; molti affermeranno che la civiltà inglese, francese, americana, rappresenta ancora, nel suo complesso, qualcosa di positivo. Altri diranno che, se la nostra cultura è negativa, una cultura negativa è ciò che ci occorre. Per confutarli, ci si offrono due argomenti distinti: uno, di principio, che una cultura di questo genere è indesiderabile; l'altro, un giudizio di fatto, che essa scomparirà comunque. I difensori dell'ordine presente non vedono né quanto di positivamente cristiano esso conserva ancora, né quanta strada abbia già fatto verso qualche cosa di completamente diverso.

Ad una classe di persone si parla con difficoltà, ad un'altra si parla invano; i secondi, più numerosi ed ostinati di quanto non sembri a tutta prima (perché rappresentano una mentalità che, per una naturale indolenza, siamo tutti portati a condividere), sono coloro che non possono immaginare che le cose saranno mai molto diverse da quel che sono ora. Di tanto in tanto, forse, sotto l'influenza di uno scrittore o di un oratore particolarmente persuasivo, cedono ad un attimo d'inquietudine o di speranza: ma una invincibile inerzia dell'immaginazione li fa continuare a vivere come se nulla dovesse cambiare mai. Coloro ai quali ci si rivolge con difficoltà, ma forse non invano, sono quelli che credono in qualche futuro cambiamento, ma non sono sicuri di ciò ch'è inevitabile, o probabile, o desiderabile.

Gli ideali che il mondo occidentale ha difeso - cioè le nozioni che esso ha santificato - sono il liberalismo e la democrazia: non identici né inseparabili. Il termine liberalismo è il più chiaramente ambiguo, ed ha perso una parte del favore di cui godeva; ma la democrazia è al culmine della sua popolarità. Quando una parola è diventata così universalmente sacra come " democrazia " per noi, io comincio a domandarmi se, significando troppe cose, essa significhi ancora qualcosa. Forse la potremmo paragonare ad un imperatore merovingio; quando la si invoca, viene fatto di cercare il maestro di palazzo.

Alcuni sono arrivati fino ad affermare, come cosa intuitiva, che la democrazia è l'unico regime compatibile con il cristianesimo; d'altra parte, anche coloro che simpatizzano con il governo nazista non rinunziano a usare questa parola. Se qualcuno si risolvesse ad attaccare la democrazia, potrei rendermi conto di ciò che essa significa. In un certo senso, l'Inghilterra e l'America sono indubbiamente più democratiche della Germania; tuttavia i fautori d'un sistema totalitario possono sostenere con argomenti plausibili che la nostra non è una democrazia, ma un'oligarchia finanziaria. Christopher Dawson ritiene che gli Stati non dittatoriali, oggi, non difendono il liberalismo, ma la democrazia, e prevede l'avvento, in tali Stati, di un tipo di democrazia totalitaria. Io condivido le sue previsioni; ma esaminando non soltanto gli Stati non dittatoriali, ma anche le società alle quali essi appartengono, trovo che la sua affermazione non rende giustizia all'influenza che il liberalismo esercita ancora sulla nostra mentalità e sul nostro atteggiamento verso gran parte della vita. Che il liberalismo possa concludersi in qualche cosa di assai diverso dal liberalismo stesso è implicito nella sua natura, poiché esso tende a lasciar sfuggire delle energie piuttosto che ad accumularle, ad allentare piuttosto che a tendere. È un movimento più dichiarato nella sua spinta iniziale che nella meta, che prende l'avvio da qualcosa di definito più che indirizzarvisi. Il nostro punto di partenza ci è più chiaro e reale di quello d'arrivo, il quale, una volta raggiunto, potrà differire in molti modi dalla nostra immagine vaga. Distruggendo le tradizioni sociali di un popolo, dissolvendo in fattori individuali la naturale coscienza collettiva, concedendo libertà alle opinioni più sciocche, sostituendo l'istruzione all'educazione, incoraggiando l'abilità piuttosto che la saggezza, gli “arrivisti” a preferenza dei qualificati, introducendo il principio del “farsi strada” come unica alternativa ad una apatia senza speranza, il liberalismo può aprire le porte a ciò che è la sua stessa negazione: il controllo artificiale, meccanico e brutale che è il disperato rimedio al suo caos.

Voglio che sia chiaro che io parlo di liberalismo in un senso molto più ampio di quel che può venire dedotto, dalla storia di un partito politico, e più ampio di quanto non sia stato mai usato nelle controversie ecclesiastiche. È vero che le tendenze del liberalismo possono venir illustrate più chiaramente dalla storia della religione anziché dalla politica, dove i principi vengono diluiti dalla necessità e l'osservazione oggettiva viene confusa dai particolari e distratta da riforme, ognuna delle quali è valida solo nel proprio ambito ristretto. In religione, il liberalismo può venire definito come un abbandono progressivo di elementi storici del cristianesimo che appaiono superflui, sorpassati, intrecciati a pratiche o ad abusi che è legittimo attaccare. Ma risentendo il suo cammino più della spinta iniziale che dell'attrazione di una meta, esso s'affloscia dopo una serie di assalti, e non avendo più nulla da distruggere, resta anche senza bersaglio e senza stendardo. Tuttavia il liberalismo religioso non m'interessa più particolarmente del liberalismo politico; m'interessa invece un atteggiamento mentale che in determinate circostanze può diventare universale ed impadronirsi ugualmente di amici e di nemici. Mi sarò espresso molto male se avrò dato l'impressione di considerare il liberalismo semplicemente come qualcosa da rifiutare e da estirpare, come un male per cui esiste una sola, semplice, alternativa. È un elemento negativo necessario; e quando ne avrò detto il peggio, avrò detto soltanto che è sconsigliabile far servire un elemento negativo ad un fine positivo.

Liberalismo e conservatorismo, quando vengono opposti l'uno all'altro, possono essere entrambi da respingere: se il liberalismo può significare il caos, il conservatorismo può significare la pietrificazione. Il nostro eterno quesito è "che cosa dev'essere distrutto?" e "che cosa dev'essere conservato?". Né il liberalismo né il conservatorismo, che non sono filosofie e forse si riducono ad abiti mentali, bastano a guidarci.

Nel XIX secolo il partito liberale ebbe un suo conservatorismo, ed il partito conservatore un suo liberalismo, ma nessuno dei due possedeva una filosofia politica. In realtà, avere una filosofia politica non è funzione di un partito politico, e cioè parlamentare: un partito con una filosofia politica è un partito rivoluzionario. Ma la politica dei partiti non m'interessa, e neppure quella di un partito rivoluzionario. Se un partito rivoluzionario raggiunge il suo vero scopo, la sua filosofia politica diventerà, attraverso un processo di espansione, quella di tutta una cultura. Se consegue soltanto il suo fine immediato, la sua filosofia politica resterà quella di una classe o di un gruppo dominante in una società con una maggioranza passiva ed una minoranza oppressa. Ma una filosofia politica non è soltanto un sistema formale costruito da un teorico, Trattati come la Politica e la Poetica di Aristotile hanno un valore permanente in quanto sono tutto l'opposto di ciò che potremmo chiamare dottrinario. Come l'opinione d'Aristotile sulla poesia drammatica si fondava sullo studio delle opere che il teatro attico aveva fino allora prodotto, così la sua teoria politica derivava da una chiara visione dei fini ai quali la democrazia ateniese mirava inconsciamente nei momenti più felici. Le sue limitazioni sono la condizione della sua universalità; invece di teorie ingegnose frutti della immaginazione, egli scrisse trattati di saggezza universale. Perciò, per filosofia politica io non intendo neppure la semplice formulazione cosciente degli ideali di un popolo, ma il sostrato di temperamento collettivo, di comportamento e di valori inconsci che fornisce il materiale per una simile formulazione. Noi non andiamo cercando un programma di partito, ma un modo di vita per un popolo: è questo che il totalitarismo3 ha tentato in parte di far rinascere e in parte di imporre con la forza ai suoi popoli. Ora la nostra scelta non è tra due forme astratte, ma fra una cultura pagana, necessariamente storpiata, ed una cultura religiosa, necessariamente imperfetta.

Gli atteggiamenti e le credenze del liberalismo sono destinati a scomparire, stanno già scomparendo. Appartengono ad un'epoca morta di libero sfruttamento ed il pericolo nostro è che il termine liberalismo venga a significare soltanto il disordine di cui ereditiamo i frutti, e non il valore permanente dell'elemento negativo. Lo stesso liberalismo produce le filosofie che lo negano. La via che conduce dal liberalismo a quella che appare come la sua fine naturale, cioè alla democrazia autoritaria, non è sempre percorsa con eguale passo. I centri del liberalismo sono tanti - l'Inghilterra, la Francia, l'America, i Dominions - che la società occidentale si evolve necessariamente più piano di un corpo compatto come la Germania, e che le sue tendenze sono meno evidenti. Inoltre i più convinti della necessità di un controllo statale su certe attività possono rivelarsi, in altri casi, i più accaniti sostenitori del liberalismo e insistere perché venga mantenuta intatta una determinata sfera di vita privata, dove ciascuno sia libero di seguire le proprie convinzioni e d'obbedire ai propri impulsi. Intanto, però, impercettibilmente, questa sfera di vita privata rimpicciolisce sempre più e può anche, una volta o l'altra, scomparire del tutto. Ad esempio, può darsi che un'ondata di terrore dinanzi alle conseguenze dello spopolamento conduca ad una legislazione che imponga l'obbligo della procreazione.

Se dunque il liberalismo scomparirà dalla filosofia di vita di un popolo, che cosa resterà di positivo? Non ci rimarrà che il termine "democrazia", una parola che per la generazione presente conserva ancora una risonanza di "libertà". Ma il totalitarismo può mantenere i termini libertà e democrazia e dar loro un significato diverso: e il suo diritto di far questo non può venir negato così facilmente come pensa chi è infiammato dalle passioni politiche. Noi corriamo il pericolo di trovarci senza nient'altro da sostenere fuorché la nostra avversione per ogni istituzione tedesca o russa: una avversione che, essendo frutto di campagne di stampa scandalistiche e di prevenzioni, può avere due risultati ad un tempo, che sembrano a tutta prima incompatibili. Può condurci a rifiutare eventuali progressi pur di non seguire l'esempio di uno o di entrambi quei paesi; e con altrettanta probabilità può renderci imitatori à rebours, facendoci accettare senza critiche tutto o quasi tutto ciò che un'altra nazione rifiuta4.

In questo momento viviamo in una zona di calma in mezzo al turbine di teorie contrastanti, in un periodo dove una filosofia politica ha perso la sua influenza sul comportamento umano, benché resti la sola che fornisca la terminologia ai nostri discorsi politici. Ciò è molto grave per la lingua inglese. Questo disorientamento - di cui noi tutti portiamo la colpa -, e non l'insincerità individuale, è responsabile della vacuità di molte dichiarazioni politiche e religiose. Basta scorrere la massa degli articoli di fondo e delle perorazioni politiche per rendersi conto che un popolo senza convinzioni non può scrivere bene. L'obiezione fondamentale alla dottrina fascista5, quella che nascondiamo a noi stessi perché potrebbe essere anche la nostra condanna, è che essa è pagana; ve ne sono altre in campo politico ed economico, ma non sono obiezioni che abbiamo il diritto di fare finché noi stessi non avremo messo ordine nei nostri affari. Altre cose ancora contro cui possiamo protestare sono l'oppressione, la violenza e la crudeltà, ma, per quanto forte sia il nostro sdegno, questa protesta riguarda i mezzi e non i fini. È vero che qualche volta chiamiamo “pagani” gli altri, e nello stesso discorso definiamo noi stessi come “cristiani”. Ma una cosa è certa: che evitiamo sempre di guardare in faccia la realtà. I nostri giornali hanno fatto tutto il possibile per sfruttare lo spauracchio della “religione nazionale germanica”6, un'eccentricità che dopo tutto non è maggiore di certi culti praticati nei paesi anglosassoni. È un conforto per noi credere che possiamo ancora richiamarci a una civiltà cristiana, e mascherare ai nostri occhi il fatto che i veri scopi che perseguiamo sono, non meno di quelli dei tedeschi, materialistici. L'ultima cosa che vorremmo, sarebbe di esaminare nei particolari quel "cristianesimo" che nelle nostre affermazioni ci vantiamo di conservare.

Una volta accettata l'opinione che la nostra unica alternativa ad un progressivo ed insidioso adattamento al processo di laicizzazione totalitario, pel quale sono già date le premesse, sta nella ricerca di una società cristiana, dobbiamo esaminare prima di tutto quale è la società dove viviamo ora, e poi quali sarebbero i caratteri di una società cristiana. Dovremmo anche essere ben certi di ciò che desideriamo: se i nostri veri ideali si riassumessero nell'efficienza materialistica, allora sarebbe meglio rendercene conto al più presto ed affrontarne le conseguenze.

Io non tento di convertire coloro che, con malcelata soddisfazione o con disperazione, pensano che gli scopi del cristianesimo sono chimerici. E non ho nulla da dire a chi è conscio di ciò che significherebbe per noi una società pagana ben organizzata. Ma può essere utile ricordare che l'imposizione di una teoria pagana dello Stato non ha come conseguenza una società completamente pagana. Un compromesso fra la teoria dello Stato e la tradizione della società esiste in Italia, paese ancora prevalentemente agricolo e cattolico. Tanto più industrializzato sarà un paese, tanto più facilmente vi attecchirà una filosofia materialistica, e più letali ne saranno le conseguenze. L'Inghilterra ha percorso la strada dell'industrializzazione più a lungo e più intensamente di ogni altro paese, e un processo di questo genere, quando non vi si pongano limiti, tende a creare agglomerati di uomini e di donne di tutte le classi, staccati dalla tradizione, straniati dalla religione e disposti a forme di suggestione collettiva; in altre parole, una folla. E una folla non cesserà di essere tale soltanto perché ben nutrita, ben vestita, alloggiata in belle case e ben disciplinata.

L'idea liberale secondo cui la religione è una questione di fede e di etica personali, così che nulla impedisce ad un buon cristiano di adattarsi ad ogni ambiente che gli dimostri una certa benevolenza, diventa sempre meno sostenibile. Quest'idea sembra sia stata accettata gradualmente, come un falso corollario della scissione della cristianità inglese in sètte e dei felici risultati di una generale tolleranza. Il motivo che ha reso possibile a seguaci di fedi diverse di vivere fianco a fianco va cercato piuttosto nell'identità dei principi che regolavano la maggior parte dei loro atti quotidiani. Sbagliando, sbagliavano tutti insieme. Un comportamento non cristiano da parte nostra è meno giustificabile che da parte dei nostri antenati, perché lo sviluppo di una società non cristiana attorno a noi, la sua più evidente intromissione nella nostra vita, ha abbattuto le comode barriere tra la moralità pubblica e privata. Il problema di vivere cristianamente in una società non cristiana ci è ben presente ormai, ed è un problema molto diverso da quello della convivenza di una Chiesa nazionale e di un nonconformismo. Non è semplicemente il problema di una minoranza in una società di individui che professano una fede diversa. È il problema che sorge in quanto noi siamo implicati in una rete di istituzioni dalle quali non possiamo dissociarci: istituzioni che nelle loro manifestazioni non appaiono ormai più neutre, ma decisamente non-cristiane. Il cristiano che non si rende conto del proprio dilemma - ed è la maggioranza - diventa ogni giorno meno cristiano sotto l'insensibile pressione di un'infinità di elementi, giacché il paganesimo controlla tutti i più efficaci mezzi di propaganda. Ogni forma di tradizione cristiana, trasmessa di generazione in generazione nell'ambito familiare, è condannata a sparire, e la piccola comunità cristiana finirà per consistere interamente di anziani.

Tutto ciò che ho detto sinora è già stato affermato anche da altri, ma si tratta di cose essenziali. Io non considero il problema del cristianesimo come quello di una minoranza perseguitata: un cristiano trattato come nemico dello Stato ha una vita molto più dura, ma più semplice. M'interessano piuttosto i pericoli di una minoranza tollerata: può ben darsi che, nel mondo moderno, venire tollerato si riveli la cosa più intollerabile per un cristiano.

Tentar di rendere desiderabile l'avvento di una società cristiana a coloro che non vi vedono alcun vantaggio personale e immediato sarebbe un'impresa vana; fors'anche la maggioranza dei cristiani professanti non vorrebbe sentirne parlare. Purtroppo non è possibile fare apparire immediatamente appetibile il progetto di una nuova società, se non ricorrendo a false promesse; e ciò durerà almeno finché la vecchia società non sia giunta a un tale punto di disperazione da acconsentire a qualsiasi mutamento. Una società cristiana diventa accettabile soltanto per chi abbia soppesato equamente le alternative. Naturalmente potremmo anche abbandonarci all'apatia: senza fede, e perciò senza fede in noi stessi, senza una filosofia della vita, pagana o cristiana, e senza arte; oppure potremmo arrivare ad una "democrazia totalitaria", diversa, ma non molto, da altre società pagane, come conseguenza di trasformazioni subite a poco a poco nella speranza di non lasciarci sopravanzare da quelle: uno stato di cose che ci darebbe l'irreggimentazione e il livellamento, senza rispetto per le esigenze dell'anima individuale; il puritanesimo di una moralità "igienica"7 al servizio dell'efficienza; l'uniformità di opinioni per opera della propaganda; l'arte incoraggiata soltanto quando lusinga le dottrine ufficiali. A chi riesce ad immaginare un mondo di questo genere, e di conseguenza ne sente repulsione, si può dichiarare che l'unica possibilità di controllo e di equilibrio sta in un controllo ed in un equilibrio religiosi; e che l'unica speranza per una società che voglia prosperare e perseverare nella propria attività creativa a pro delle arti civili è di diventare cristiana. È una prospettiva che implica, a dir poco, disciplina, difficoltà e disagi: ma qui, come ovunque, l'alternativa all'inferno è il purgatorio.8


CAPITOLO SECONDO


La mia tesi sinora è stata semplice: una società liberale o negativa non può che avviarsi ad un declino di cui non vediamo la fine, oppure (sia come risultato di una catastrofe o no) ritornare ad una forma positiva che con ogni probabilità sarà efficiente e laica. Per provar timore di fronte ad una simile evoluzione non occorre pensare che questo laicismo somiglierà da vicino ad un qualsiasi sistema politico passato o presente: la capacità degli anglosassoni di diluire la propria religione supera certamente quella di ogni altra nazione. Ma, a meno di accontentarsi di una o dell'altra di queste prospettive, l'unica alternativa che ci resta è la creazione di una società cristiana positiva. Questa terza soluzione farà presa soltanto su coloro che sono uniti in un comune giudizio della situazione presente, e che capiscono come le conseguenze di una società completamente laica sarebbero rifiutate anche da chi non dà un'importanza capitale alla sopravvivenza del cristianesimo di per se stesso.

Io non esamino le eventuali vie da seguire per creare questa società cristiana. Mi limiterò a tratteggiare quelli che ritengo gli elementi essenziali di una simile società, ricordando che essa non potrebbe essere medioevale nella sua forma né seguire il modello della società del XVII o di qualunque altro secolo. In quale senso possiamo dunque parlare di uno “Stato cristiano”? Vorrei distinguere, a scopo dimostrativo, tre diverse entità: lo Stato cristiano, la Comunità cristiana e la "Comunità dei Cristiani"9, quali elementi della società cristiana.

Lo Stato cristiano è per me la società cristiana considerata nelle sue leggi, nella sua amministrazione, nella sua tradizione giuridica, nel suo aspetto formale. Vorrei notare che, arrivato a questo punto, io affronto il problema di Chiesa e Stato soltanto con la domanda: "Com'è lo Stato con il quale la Chiesa può mantenere un rapporto?". Intendo un rapporto del genere di quello che abbiamo attualmente in Inghilterra e che non si basa né sulla tolleranza reciproca, né su un concordato1. Quest'ultimo mi sembra semplicemente una specie di compromesso di dubbia durata, fondato su un'incerta spartizione di autorità e spesso su una scissione nel dovere d'obbedienza del popolo; un compromesso che rivela forse, da una parte, la speranza degli uomini di Stato che un loro governo sopravviva al cristianesimo, e, dall'altra, la fede della Chiesa di sopravvivere ad ogni forma di organizzazione laica. Un rapporto fra Chiesa e Stato del tipo a cui noi pensiamo comunemente presuppone che lo Stato sia in un certo senso cristiano.

A questo punto è necessario sia chiaro che con la qualifica di "cristiano" io non intendo uno Stato i cui capi vengono scelti per i loro meriti, ed ancor meno per la loro eminenza, di cristiani. Un governo di santi finirebbe per diventare troppo scomodo. Non nego che uno Stato cristiano possa ricavare qualche vantaggio dal fatto che i suoi funzionari più autorevoli siano cristiani. Questo accade qualche volta anche ai nostri tempi. Ma pure se oggi tutte le persone che ricoprono le più alte cariche fossero cristiani devoti ed ortodossi, non per questo dovremmo aspettarci che il modo di trattare gli affari pubblici fosse molto diverso. Il cristiano e l'incredulo non si comportano né possono comportarsi molto diversamente nell'esercizio del loro ufficio, perché il contegno degli uomini di Stato è determinato non tanto dalla loro personale devozione, quanto dalla mentalità diffusa nel popolo che governano. Accettiamo pure l'affermazione - di F. S. Oliver - dopo quel che avevano già detto al riguardo Bulow e Disraeli - che i veri uomini di Stato sono ispirati soltanto dal desiderio istintivo del potere e dall'amor patrio: quel che conta non è tanto il cristianesimo degli uomini di Stato quanto che essi siano obbligati, dal carattere e dalle tradizioni del popolo che governano, a realizzare le loro ambizioni e contribuire alla prosperità ed al prestigio del loro paese entro una cornice cristiana. Potranno trovarsi spesso costretti a compiere atti non cristiani; ma non dovranno mai tentare una difesa delle loro azioni facendo ricorso a principi non cristiani.

Coloro che oggi governano, o aspirano a governare, possono dividersi in tre categorie, con una classificazione che non tiene conto delle differenze tra fascismo, comunismo e democrazia. Vi sono quelli che hanno accolto o adattato una filosofia, sia di Marx o di S. Tommaso; quelli che, combinando inventiva ed eclettismo, hanno creato una filosofia propria (priva generalmente della profondità e della consistenza che ci si attende da una dottrina di vita); infine coloro che adempiono ai propri compiti senza alcuna filosofia apparente. lo non pretendo che i governanti di uno Stato cristiano siano filosofi, né che tutte le volte che devono prendere una decisione abbiano presente la massima che un'esistenza virtuosa è il fine di ogni società umana - virtuosa... vita est congregationis humanae finis - ; ma non li vorrei autodidatti, né vorrei che fossero passati in gioventù soltanto per quel sistema di istruzione, eterogenea o specializzata, che passa per educazione: in una parola la loro educazione dovrebbe essere cristiana. Il proposito di un'educazione cristiana10 non sarebbe soltanto di creare uomini e donne pii: un sistema inteso troppo rigidamente a questo solo fine sarebbe oscurantista. Un'educazione cristiana abituerebbe in primo luogo gli uomini a pensare secondo categorie cristiane, pur non costringendoli alla fede e non imponendo loro l'obbligo di professioni di fede insincere.

Ciò che i governanti crederebbero sarebbe meno importante delle credenze alle quali essi sarebbero costretti a conformarsi. L'uomo di Stato scettico ed indifferente, obbligato a lavorare entro una cornice cristiana, potrebbe svolgere opera più efficace di un cristiano devoto il quale dovesse costringere la propria azione entro una cornice laica. Al primo, infatti, si chiederebbe una politica che servisse al governo di una società cristiana.

I rapporti fra Stato cristiano, Comunità cristiana e "Comunità dei Cristiani" possono venir utilmente esaminati con riguardo al problema della fede. La richiesta minima che si farebbe agli uomini di Stato sarebbe di un comportamento coscientemente conforme ai principi cristiani. Nella Comunità cristiana che essi governeranno, la fede cristiana sarà connaturata; ma essa esigerà, come condizione minima, una conformità di vita in gran parte inconsapevole: una vita cristiana cosciente, al suo livello più alto, potrebbe venire richiesta solo ad un gruppo molto più ristretto di uomini coscienti, cioè alla "Comunità dei Cristiani".

Per la grande massa degli uomini, le cui facoltà si esauriscono in gran parte nei loro contatti con la terra, col mare, con le macchine, o con un piccolo numero di persone, di piaceri e di doveri, si esigono due condizioni. La prima, che essendo limitata la loro capacità di pensare alle cose della fede, il loro cristianesimo si manifesti quasi interamente negli atti: sia nelle pratiche religiose usuali e periodiche, sia in un codice tradizionale che regoli la loro condotta nei rapporti con gli altri uomini. La seconda che, pur comprendendo quanto i loro atti siano lontani dall'ideale cristiano, la loro vita sociale e religiosa formi una naturale unità, e che perciò la difficoltà di comportarsi come veri cristiani non li costringa ad uno sforzo intollerabile. In realtà queste due condizioni non sono che una sola, formulata diversamente. Ai nostri giorni sono ben lontane dall'essere realizzate.

Il nucleo tradizionale della Comunità cristiana in Inghilterra è la parrocchia. Quali trasformazioni radicali questo sistema dovrà subire per adeguarsi ad un futuro stato di cose non è argomento che qui possa essere trattato. Indubbiamente la parrocchia è in decadenza per cause svariate, di cui la meno rilevante è la divisione in sètte: un motivo molto più importante è l'inurbamento, termine in cui sono compresi tutte le cause e tutti gli effetti di questo fenomeno, anche la formazione di vaste aree suburbane. Fino a che punto la parrocchia dovrà subire una trasformazione? La risposta dipenderà in gran parte dalla nostra maggiore o minore rassegnazione di fronte alle cause che tendono a distruggerla. Comunque, la parrocchia può servire al mio scopo come esempio di unità comunitaria. Infatti questa unità non deve essere soltanto religiosa, né solo sociale; né l'individuo dev'essere membro di due unità separate, o anche non perfettamente coincidenti, una religiosa, l'altra sociale.

La comunità dovrebbe essere sociale-religiosa, e tale che tutte le classi, dove esse esistono, vi abbiano il centro dei loro interessi. Queste condizioni non si trovano più realizzate per intero se non nel caso di tribù del tutto primitive.

Non è soltanto presso di noi che la massa si sta allontanando ogni giorno di più dal cristianesimo. È una situazione comune a tutti i paesi civilizzati, come ebbe a constatare con viva preoccupazione anche il defunto pontefice. Quel che piuttosto mi sorprende è che in una società industrializzata come quella inglese il popolo conservi quel tanto di cristianesimo che c'è ancora. Per la grande maggioranza - e io non penso qui in termini di classe sociale, ma bensì di strato intellettuale - la religione dev'essere anzitutto una questione di comportamento e di abitudini, qualcosa di integrato alla vita sociale, agli affari ed ai piaceri, così che le emozioni più particolarmente religiose debbono rappresentare una sorta di estensione e di santificazione delle emozioni domestiche e sociali. Anche nell'individuo più evoluto e cosciente, che viva nel mondo, pensieri e sentimenti possono volgere per una via coscientemente cristiana solo in momenti particolari nel corso del giorno o della settimana, e anche in quei momenti solo in conseguenza di abitudini contratte. La rigida consapevolezza, quando si deve fare una scelta, di un'alternativa cristiana e non cristiana, impone uno sforzo grandissimo. In una società cristiana la massa del popolo non dovrebbe essere costretta a condurre una vita dove troppo frequente e troppo chiaro appare il conflitto tra la via facile, suggerita dalle circostanze, e la via cristiana. L'obbligo di vivere in un mondo dove il comportamento cristiano è possibile soltanto in un piccolo numero di situazioni agisce potentemente contro il cristianesimo, giacché la condotta influisce sulla fede non meno di quanto la fede influisca sulla condotta.

Non intendo presentare un quadro idilliaco della parrocchia rurale, presente o passata, se prendo a modello una piccola comunità, quasi autonoma, radicata nella terra, i cui interessi siano concentrati in un luogo determinato, che sia delimitata secondo criteri fissati in anticipo, ma che possa anche svilupparsi nel corso delle generazioni. È l'idea, o l'ideale, di una comunità abbastanza piccola per costituire un nesso di rapporti diretti, personali, dove ogni iniquità ed ogni bassezza possono assumere la forma semplice e facilmente apprezzabile di un rapporto sbagliato fra una persona e l'altra. Oggi, neppure la più piccola comunità è semplificata a questo punto, a meno che non sia tanto primitiva da presentare imperfezioni di diverso genere; d'altra parte io non invoco un ritorno integrale ad uno stato di cose sorpassato, vero o idealizzato che sia. In particolare, il mio ideale non sembra offrire alcuna soluzione al problema della vita industriale, nelle città e nei sobborghi, che è la vita della maggioranza. Si potrebbe dire che, nella sua organizzazione religiosa, la Cristianità è rimasta ferma ad un grado di sviluppo adatto ad una società di agricoltori e di pescatori, e che l'organizzazione materiale della vita moderna (possiamo anche dire "complicazione" per chi intende "organizzazione" come un complimento) ha creato un mondo al quale le forme sociali cristiane sono male adattate. Tuttavia, anche accettando questo punto di vista, vi sono due semplificazioni del problema che appaiono sospette; secondo l'una, la sola salvezza per la società sta nel ritorno ad una vita più elementare, libera da tutte quelle sovrastrutture del mondo moderno di cui possiamo fare a meno. Questa formulazione estrema delle idee neo-ruskiniane fu sostenuta con molto vigore da A. J. Penty. Ma considerando la grande parte che ha l'elemento deterministico nella struttura sociale, questa politica appare un'utopia: se una simile forma di vita si affermerà mai, e ciò potrebbe anche accadere, sarà per cause del tutto naturali e non per la volontà morale degli uomini. L'altra alternativa è di accettare il mondo moderno com'è, e tentare soltanto di adattare ad esso gli ideali sociali cristiani. Questa seconda via si riduce ad un sistema di espedienti ed equivale a una rinuncia a credere che il cristianesimo di per sé possa contribuire alla creazione di forme sociali. D'altra parte non occorre una visione cristiana del mondo per capire che il nostro sistema sociale ha molto che è intrinsecamente cattivo.

Da questo punto parte una via che io non intendo seguire; ma trattandosi di una via che parrebbe ovvio prendere, che a qualcuno potrà anche sembrare la via maestra, vorrei almeno spiegare in breve perché io non voglio prenderla. Pur cadendo in frequenti equivoci, noi siamo abituati in pratica a distinguere fra il male che è presente nella natura umana in ogni tempo ed in ogni circostanza, ed il male attinente a particolari istituzioni e luoghi e tempi - male che, pur attribuibile a certi individui piuttosto che a certi altri o alla somma delle deviazioni della volontà di molti individui durante parecchie generazioni, non può essere imputato in nessun momento a questa o quella persona in particolare. Se commettiamo l'errore di credere che questo male proviene da cause di là dalla volontà umana, riterremo pure che soltanto altre cause indipendenti da noi potranno distruggerlo. Ma si può anche pensare diversamente, e puntare tutte le nostre speranze sulla sostituzione di un meccanismo ad un altro. Tuttavia la linea di pensiero che tende alla realizzazione di una società cristiana, linea che io voglio soltanto indicare, ci costringerà inevitabilmente ad affrontare problemi quali l'assurgere del profitto individuale a ideale sociale, la distinzione fra l'uso delle risorse naturali ed il loro sfruttamento, il profitto eccessivo del commerciante in confronto a quello del produttore, l'indirizzo errato dato alla macchina finanziaria, l'iniquità dell'usura, ed altri caratteri d'una società commercializzata che debbono venire vagliati secondo principi cristiani. Non evito questi problemi trincerandomi dietro la comoda scusa che sono incompetente, benché, in realtà, un solo sospetto sulla mia competenza potrebbe pregiudicare l'accoglimento di ogni eventuale osservazione che io faccia, e neppure rimetto la loro soluzione nelle mani dei supposti "autorevoli tecnici", perché questo significherebbe disconoscere il primato della morale. Quel che voglio dire è che. essendo quasi tutti d'accordo che molte cose sono sbagliate, il problema di come correggere gli errori è così controverso che ad ogni soluzione che si propone ne fan subito riscontro una dozzina di altre; quindi l'attenzione del lettore si rivolgerebbe, in queste pagine, più ai difetti delle mie proposte che alla mia preoccupazione dominante: il fine da conseguire. Perciò mi limito all'affermazione (e pochi, credo, vorranno controbatterla) che una gran parte del meccanismo della vita moderna serve soltanto a sanzionare scopi non cristiani; che esso non è solo ostile ad un'aspirazione sincera dei pochi verso la vita cristiana, ma alla conservazione stessa della società cristiana in tutto il mondo. È ora di abbandonare l'opinione che il cristiano debba considerarsi soddisfatto solo perché gode della libertà di culto e non è soggetto ad alcuna discriminazione a causa della sua fede. Per quanto settario io possa sembrare, dirò che non vi è null'altro che possa soddisfare il cristiano se non una organizzazione cristiana della società (il che non equivale ad una società composta esclusivamente di cristiani devoti). Sarebbe una società dove il diritto a conseguire il fine naturale dell'uomo - cioè la virtù ed il benessere condiviso con il prossimo - verrebbe riconosciuto a tutti, ed il diritto al fine ultraterreno - la beatitudine - a coloro che hanno occhi per vederlo.

Tuttavia voglio ritornare al punto a cui ero arrivato più sopra, e cioè: non vi è comunità cristiana là dove non vige un codice unificato di condotta religiosa e sociale. Non occorre che l'individuo abbia piena coscienza di quali sono gli elementi spiccatamente religiosi e cristiani e di quali sono gli elementi sociali, cioè quelli che, pur facendo un corpo solo con la religione, non hanno con essa alcun legame logico. Non pretendo che la comunità contenga un numero di "buoni cristiani" maggiore di quello che è lecito aspettarsi in circostanze favorevoli. Da una parte, la vita religiosa del popolo sarebbe soprattutto una questione di comportamento e di conformismo; dall'altra, i costumi sociali riceverebbero sanzione religiosa. Vi sarebbero certo molte ramificazioni irrilevanti e una varietà di tendenze e di pratiche locali che la Chiesa dovrebbe correggere se fossero troppo eccentriche e superstiziose, ma che, nei giusti limiti, darebbero solidità e coesione alla società. La vita tradizionale della comunità non verrebbe imposta dalle leggi, non risentirebbe di costrizioni esterne e non sarebbe soltanto la somma dell'intelligenza e della fede dei singoli individui.

Come ho detto, i governanti, per il fatto di essere tali, accetteranno il cristianesimo non semplicemente come fede e guida nell'azione, ma come il sistema entro il cui ambito dovranno governare. Il popolo l'accetterà come modo di vita e come costume. Nel sistema che ho delineato è evidente che lo Stato muove tendenzialmente verso una politica di convenienza che può diventare cinica manipolazione, mentre il popolo tende ad adagiarsi nel letargo intellettuale e nella superstizione. Abbiamo perciò bisogno di quella che io ho chiamato la "Comunità dei Cristiani". La "Comunità dei Cristiani" sarà formata da cristiani coscientemente e pensosamente praticanti, in particolare da quelli che si distinguono per intelligenza e spiritualità. Mi si osserverà subito che questa categoria di persone somiglia a quella che Coleridge2 chiamò “clerisy”; un termine recentemente tornato in uso, con significato un po' diverso, ad opera di John Middleton Murry. Io credo che la mia “Comunità dei Cristiani” sia qualcosa di differente da una “clerisy” sia nel senso di Coleridge sia in quello di John Middleton Murry. Il contenuto a cui si riferiva Coleridge con quel termine è andato dileguandosi col tempo. Si ricorderà che Coleridge si servì di quella parola per indicare un complesso formato da tre categorie di persone: i professori delle università e delle grandi scuole di dottrina, gli ecclesiastici delle parrocchie, ed i maestri di scuola. La concezione che Coleridge ebbe delle funzioni del clero e dei suoi rapporti con l'educazione si formò in un mondo che, da allora, ha subito cambiamenti straordinari: la sua insistenza perché gli ecclesiastici fossero di regola uomini sposati e padri di famiglia, e le sue oscure allusioni a potenze clericali straniere, non hanno più gran significato; inoltre egli non seppe riconoscere l'immenso valore che gli ordini monastici possono e dovrebbero avere per la comunità. Il termine che io uso dovrebbe indicare qualcosa di più ampio e di più limitato nello stesso tempo. È chiaro che nel campo dell'educazione non si può più contare a priori sull'aderenza ai principi di fede cristiani o sul possesso di un corpo di cognizioni cristiane; né ci possiamo attendere che la supremazia del teologo sia riconosciuta, e tanto meno imporla. In ogni futura società cristiana che io posso concepire, il sistema educativo sarà adeguato a quelli che il cristianesimo intende come i fini dell'educazione (distinguendo qui l'educazione dalla semplice istruzione), ma gli educatori avranno inevitabilmente mentalità diverse; si può anzi sperare che tale diversità giovi alla vitalità intellettuale del sistema. Il corpo degli educatori comprenderà persone d'abilità eccezionale che potranno essere indifferenti dal punto di vista religioso o miscredenti, e anche un certo numero di persone che professeranno fedi diverse dalla cristiana. Le limitazioni imposte a queste persone somiglierebbero a quelle imposte dal carattere stesso della società all'uomo politico incapace di fede cristiana, ma in possesso di attitudini che lo rendono indispensabile al paese.

Se m'imbarcassi in una critica degli ideali educativi contemporanei sarei ancora più incauto che azzardandomi a criticare la politica del tempo nostro; tuttavia non mi sembra fuori luogo accennare alla stretta relazione fra le teorie educative e quelle politiche. Sarebbe certo sorprendente vedere un completo disaccordo tra il sistema educativo e quello politico d'un determinato paese; e ciò che ho detto del carattere negativo della nostra filosofia politica dovrebbe suggerire una critica analoga della nostra educazione, non per quel che essa è in pratica, qua o là, ma per quei presupposti ideali sulla natura e sugli scopi dell'educazione che mirano ad influire sulla prassi educativa di tutto il paese. Non ho bisogno di ricordare che un governo totalitario e pagano difficilmente lascerà che l'educazione se ne vada per la propria strada, o rinuncerà ad interferire nei metodi tradizionali delle istituzioni anche più antiche: ci sono ben note le conseguenze, in altri paesi, di questi interventi compiuti per i motivi più futili. È probabile che si eserciterà dovunque una pressione crescente perché gli ideali educativi si adattino a quelli politici, e tanto nel campo educativo, come in quello politico, non abbiamo altra scelta che tra due sistemi, uno più elevato e l'altro meno, capaci di fornire di “ragioni” un movimento ineluttabile. In una società cristiana, l'educazione dev'essere religiosa, non nel senso che debba essere impartita da ecclesiastici, e ancor meno nel senso di una costrizione delle volontà o di un tentativo d'imporre a tutti lo studio della teologia, ma solo nel senso che i suoi fini saranno determinati da una filosofia cristiana della vita. La parola educazione non farà più ricordare un'accozzaglia di argomenti disparati, proposti allo studio per scopi specifici o per nessuno scopo di nessun genere.

La mia “Comunità dei Cristiani”, quindi, contrariamente alla “clerisy” di Coleridge, difficilmente potrebbe includere tutto il corpo insegnante. D'altra parte comprenderebbe, a parte molti laici dediti ad occupazioni diverse, anche molti ecclesiastici, ma non tutti. In un clero nazionale ci sono, naturalmente, uomini di diverso tipo e livello d'ingegno. Come ho già lasciato intendere, la fede si misura in senso verticale ed in senso orizzontale, e per rispondere esaurientemente alla domanda: “In che cosa crede A?” bisogna anzitutto saperne abbastanza sul conto di A per rendersi conto del livello sul quale egli può credere a qualche cosa. La “Comunità dei Cristiani” - un corpo dai contorni solo vagamente definiti - includerebbe quegli individui, ecclesiastici e laici, dotati di qualità intellettuali o spirituali superiori (o di entrambe). E comprenderebbe anche alcuni di coloro chiamati generalmente, e non sempre con intenzioni benevole, “intellettuali”.

Limitare ai conventi o ai monasteri la cultura e lo studio della filosofia e dell'arte significherebbe un ritorno al Medioevo che non voglio nemmeno immaginare; d'altra parte, anche la segregazione degli intellettuali laici in un loro mondo privato, nel quale pochissimi uomini di Chiesa o di Stato entrano mai, e per cui neppure provano curiosità, non mi pare una situazione promettente. Mi sembra che molte possibilità vengano sprecate per pura ignoranza: si applica l'ingegno all'elaborazione di filosofie stiracchiate, in mancanza di un fondo comune di conoscenze; si scrive per i nostri amici - che per la maggior parte sono anch'essi scrittori - o per i nostri allievi che lo diventeranno; oppure si ha di mira un ipotetico "gran pubblico" che non conosciamo e che forse non esiste. In ogni caso, il risultato sarà probabilmente di una raffinata crudezza, tipicamente provinciale. Quali siano le condizioni sociali più favorevoli alla creazione di capolavori, nella filosofia, nelle lettere o nelle altre arti, è uno di quegli argomenti controversi che sono forse più adatti ad essere il tema di una conversazione che di un libro. Può darsi che non vi sia un complesso di condizioni più d'un altro favorevole al fiorire di tutte queste attività: è altrettanto possibile che le condizioni necessario cambino secondo il paese e la civiltà. Sarebbe difficile chiamare liberale il regime di Luigi XIV o dei Tudor o degli Stuart, ma neppure sembra che i governi autoritari del nostro tempo siano propizi ad una rinascenza artistica. Se l'arte fiorisca meglio in un periodo di potenza o d'espansione, o in un'epoca di decadenza, è una domanda a cui non so rispondere. Forse, un governo anche tirannico può non recare gran danno, finché il suo controllo si esercita entro un ambito rigidamente definito, finché, cioè, esso si limita a controllare le libertà dei propri sudditi senza tentare d'influire sulle loro idee. Certo è che un regime di illimitata demagogia avvilisce anche l'intelligenza. Ma limiterò le mie considerazioni alla posizione delle arti nella società odierna, e a ciò che esse sarebbero nella futura società che io immagino.

Può darsi che le condizioni sfavorevoli alle arti abbiano, oggi, origini troppo profonde e siano troppo molteplici per dipendere dalla diversità tra una forma di governo e l'altra, cosicché non ci resterebbe che la prospettiva d'una lenta, continua decadenza o d'una improvvisa estinzione. Purtroppo nessun progetto dì riforma sociale può mirare direttamente ad uno stato di cose che sia propizio alla fioritura artistica: è probabile, infatti, che le arti siano attività derivate per le quali è impossibile preparare deliberatamente un terreno favorevole. Tuttavia, il loro decadimento può sempre venir preso come sintomo di una infermità sociale che deve essere analizzata. Il futuro dell'arte e del pensiero in una società democratica non appare più promettente che in qualsiasi altra forma di società, a meno che la parola democrazia non assuma un significato assai diverso da tutti quelli che adesso ha. Non ch'io voglia difendere una censura morale: mi sono sempre opposto recisamente ad una soppressione di libri che possiedono, o anche soltanto pretendono di possedere, qualche merito letterario. Ma la costante, silenziosa influenza che si esercita in ogni società di massa imperniata sul profitto, e che conduce all'abbassamento del livello artistico e culturale, mi pare più insidiosa d'ogni forma di censura. La macchina sempre più perfezionata dell'organizzazione pubblicitaria e della propaganda - ossia la tecnica per influire sulle masse con ogni mezzo tranne che con l'appello al chi loro intelligenza - agisce contro l'arte e la cultura. Ostili ad esse sono pure il sistema economico, il caos degli ideali e la confusione di pensiero che distinguono la nostra educazione tipicamente di massa, infine la scomparsa di una classe che riconosca l'obbligo personale e collettivo di prendere sotto il suo patronato quanto di meglio viene fatto e scritto. In un periodo in cui ogni nazione ha un patrimonio culturale che diventa ogni giorno più inadeguato ai suoi bisogni, tutti si danno a compiere sforzi affannosi per esportare la loro cultura, per far valere, l'uno verso l'altro, i risultati conseguiti in quelle arti che cominciano a non saper più capire ne coltivare. Coloro che si vantano d'essere degli "intellettuali" considerano la teologia un campo dì studio per specialisti che, al pari della numismatica o dell'araldica, non li riguarda affatto; i teologi, da parte loro, nutrono la stessa indifferenza verso la letteratura e l'arte, considerate come studi per specialisti; infine, le nostre classi politiche guardano ad entrambe le attività, teologica ed artistica, come a territori di cui possono senza vergogna ignorare l'esistenza. In una situazione simile, gli autori più seri hanno un pubblico limitato e perfino provinciale, mentre gli autori più popolari scrivono per una massa illetterata e incapace di critica.

Non ci si può aspettare continuità e coerenza in politica, non ci si può aspettare una condotta responsabile basata su principi precisi, che si svolga lungo una stessa linea attraverso il variare delle situazioni, a meno che vi sia una filosofia politica a sostenere l'edificio: la filosofia non di un partito ma di tutta la nazione. Non ci si può attendere continuità e coerenza in letteratura ed in arte senza una certa omogeneità di cultura11 che si rifletta nell'educazione grazie ad un consenso stabile, ma non immutabile, su quel che ognuno dovrebbe in certa misura conoscere, e grazie ad una distinzione precisa - per quanto poco democratico ciò possa sembrare - fra quelli che sono educati e quelli che non lo sono. In America ho notato che, pur essendo molto alto il livello d'intelligenza degli studenti delle scuole medie, una maggior cultura è ostacolata dal fatto che non si riesce a trovare neppure due giovani (a meno che abbiano frequentato la stessa scuola, con gli stessi professori e nello stesso periodo di tempo), i quali abbiano studiato argomenti uguali o letto i medesimi libri, e ciò benché il numero e la varietà delle loro cognizioni siano sorprendenti.

Anche se fosse andato a scapito della loro cultura generale, sarebbe stato meglio che avessero letto meno libri, ma gli stessi libri. In una società liberale, e quindi " negativa ", non esiste consenso sull'insieme di cognizioni che ogni persona dovrebbe avere assimilato nei diversi stadi della sua educazione: l'ideale di saggezza va scomparendo, sostituito da uno sperimentalismo sporadico e frammentario. Eppure, nella vita d'una nazione il sistema educativo è molto più importante del sistema di governo, perché soltanto un adeguato sistema educatìvo può unire la vita attiva e quella contemplativa, l'azione e la speculazione, la politica e l'arte. Ma "l'educazione", diceva Coleridge, "deve venir riformata e diventare sinonimo di istruzione". La rivoluzione e avvenuta: per il volgo, oggi, educazione significa istruzione. E la prossima iniziativa dei nostri "chierici" laici consisterà nell'inculcare i principi politici approvati dal partito al potere.

Sembrerà che io abbia divagato, ma credo fosse necessario accennare alla parte preminente che ha l'educazione nel creare la situazione in cui noi viviamo o in cui ben presto vivremo: uno Stato laicizzato, una comunità diventata massa, una classe di "chierici" disintegrata. La prima idea che si presenta alla mentalità laica quando c'è una situazione imbrogliata è di subordinare tutto al potere politico. E in quanto implica la subordinazione degli interessi di chi vuoi arricchire a quelli di tutta la nazione, la soluzione offre qualche sollievo immediato, anche se illusorio; un popolo si sente più fiero avendo per eroe un uomo di Stato, seppure senza scrupoli, o un uomo d'armi, per quanto brutale, piuttosto che un finanziere. Ma essa implica anche la segregazione del clero in un campo di attività sempre più ristretto, il soffocamento della libera speculazione intellettuale e l'avvilimento delle arti per opportunità politica. Soltanto in una società a base religiosa - ciò che non equivale ad un dispotismo ecclesiastico - è possibile ottenere l'armonia e la tensione necessario all'individuo e alla comunità.

In ogni futura società cristiana - in quella cioè che Jacques Maritain chiama una società pluralista - la mia "Comunità dei Cristiani" non potrà costituire un corpo così esattamente definito per la sua vocazione come la "clerisy" di Coleridge, la quale, vista a distanza d'un secolo, appare di una rigidità troppo simile a quella d'una casta.

La "Comunità dei Cristiani" non è un'organizzazione, ma un corpo senza contorni ben definiti, composto di ecclesiastici e di laici, degli uomini che, di entrambe le classi, sono i più coscienti e più preparati spiritualmente ed intellettualmente. La loro identità di vita e d'aspirazioni, la comune esperienza di cultura e di educazione li metteranno in grado di influenzarsi reciprocamente e di formare collettivamente la mentalità e la coscienza della nazione.

Lo Spirito scende sulla terra per le vie più diverse, ed io non posso concepire alcuna società futura dove sarebbe possibile distinguere i cristiani dai non cristiani soltanto per la loro professione di fede, e, neppure, ove si applicasse un codice troppo rigoroso per la loro condotta di vita. Nella presente, generale condizione d'ignoranza, è legittimo sospettare che molti, i quali si proclamano cristiani, non sanno il valore di questa parola, mentre altri, che respingono lontano da sé con ogni loro forza il cristianesimo, sono più cristiani di molti che lo sostengono. Forse, avremo sempre individui che, pur dotati di genialità creativa preziosa per l'umanità e della sensibilità che tale dote comporta, resteranno egualmente ciechi, indifferenti o anche ostili. Ma tutto ciò non dovrà impedir loro di esplicare il talento che hanno ricevuto in dono.

Questo mio schema di una società cristiana, già privo di molti particolari che possono essere ritenuti essenziali, non reggerebbe nemmeno come abbozzo senza un accenno, sia pur commisurato al resto della mia esposizione, alle relazioni fra Chiesa e Stato in una simile società.

Sinora non ho detto nulla che faccia pensare all'esistenza di una Chiesa organizzata. È chiaro, tuttavia, che lo Stato sarebbe nella necessità di rispettare i principi cristiani soltanto nella misura in cui le consuetudini ed i sentimenti del popolo non fossero da esso sovvertiti ed offesi troppo repentinamente o con troppa violenza, o fino a che esso non venisse affrontato da una protesta concorde dei membri più influenti della “Comunità dei Cristiani”. Lo Stato, dunque, è cristiano solo negativamente; il suo cristianesimo è un riflesso del cristianesimo della società da cui esso emana. Non abbiamo alcuna garanzia contro uno slittamento graduale dello Stato che, prendendo l'avvio da atti non cristiani, giunga ad un'azione dapprima basata implicitamente sui principi non cristiani, ed infine ad un'azione basata su principi dichiaratamente non cristiani. Non abbiamo garanzia della purezza del nostro cristianesimo, poiché, come lo Stato può passare da una politica di espedienti ad una deliberata mancanza di principi, come la comunità cristiana può sprofondare nell'apatia, così la “Comunità dei Cristiani” potrebbe essere svigorita dall'eccentricità e dagli errori di un gruppo o di un individuo.

Fino a questo punto abbiamo di fronte a noi soltanto una società che può avere con la Chiesa un rapporto, non di tolleranza né di ostilità, ma tale da risultare desiderabile per tutt'e due le parti. Questo rapporto è così importante che, fin quando non sarà discusso, non avremo mostrato neppure la nuda ossatura di una società cristiana, ma soltanto i pezzi sconnessi che dovrebbero comporla.


CAPITOLO TERZO


Ho già detto come questo saggio sia, in un certo senso, una prefazione al problema dei rapporti tra Chiesa e Stato. A questo punto sarà bene indicarne le implicite limitazioni. Il problema di Chiesa e Stato interessa ogni paese cristiano, ossia ogni possibile forma di società cristiana, pur assumendo aspetti diversi secondo le tradizioni delle diverse società - cattolica, ortodossa, luterana. E ancora il problema prenderà altre forme in paesi come gli Stati Uniti d'America e i Dominions, dove la varietà di razze e di comunità religiose sembra renderlo insolubile. In realtà, si potrebbe pensare che in quei paesi il problema non esista affatto, che la loro origine li indirizzi verso una forma di società neutra. Io non scarto a priori la possibilità che, in simili condizioni, una società neutra possa vivere per un tempo indefinito. Ma credo che questi paesi, se vogliono sviluppare una cultura positiva propria e non restare semplicemente appendici dell'Europa, non potranno che indirizzarsi verso una società pagana oppure verso una società cristiana. Non voglio con ciò dire che la seconda alternativa debba condurre necessariamente alla soppressione forzata o alla scomparsa completa delle sette dissidenti; ancor meno, spero, all'unione superficiale delle Chiese sotto un'unica bandiera ufficiale, unione dove i dissidi teologici verrebbero minimizzati a tal punto da ridurre il cristianesimo ad una vera e propria commedia. Ma una cultura positiva deve poggiare su una serie di valori positivi, ed i dissidenti debbono restare al margine e limitarsi a contributi secondari.

Quindi, indipendentemente dalle condizioni locali, la questione dei rapporti tra Chiesa e Stato è importante ovunque. Può darsi che la sua urgenza in Europa la faccia sembrare più remota in America, così come la sua urgenza in Inghilterra suscita considerazioni lontane dagli interessi vivi del resto dell'Europa. Se le pagine seguenti trovano un'applicazione diretta solo in Inghilterra, non è perché io mi occupi di situazioni particolari senza curarmi della Cristianità nel suo complesso, ma perché posso discutere utilmente soltanto le situazioni che conosco meglio, ed anche perché una trattazione più generale finirebbe probabilmente per agitare soltanto delle astrazioni, delle entità fittizie. Perciò ho limitato il mio campo all'esame delle possibilità di una società cristiana in Inghilterra e, quando parlo di Chiesa e Stato, penso alla Chiesa anglicana. Ma è necessario ricordare che parole come "Chiesa nazionale" e "Chiesa costituita"3 possono avere un significato più ampio di quello che attribuiamo loro generalmente. D'altra parte, io voglio parlare soltanto di una Chiesa che pretenda a buon diritto di rappresentare la forma di fede e di culto cristiani, che è tradizionale per la grande maggioranza del popolo di un determinato paese.

Se il mio profilo di una società cristiana ha ottenuto l'assenso del lettore, egli sarà anche d'accordo con me che una simile società può venir realizzata solo se la grande maggioranza delle "pecore" appartiene allo stesso gregge. A chi sostiene che l'unità di vedute è cosa senza importanza, a chi sostiene che anche una estrema divergenza di opinioni teologiche è un bene, io non posso fare appello. Ma una volta ammesso che l'unità è da auspicarsi, una volta che l'idea di una società cristiana è compresa ed accettata, allora non v'è che la Chiesa d'Inghilterra che possa, nel nostro paese, realizzarla. Non è questo il luogo per discutere la posizione teologica di questa Chiesa. Se è, per qualche verso, errata o incoerente o in alcuni punti evasiva, tutto ciò potrà essere oggetto di riforma nell'ambito della Chiesa stessa. Con ciò, io non trascuro la possibilità e non rinunzio alla speranza dì una sua riunione con la Chiesa di Roma o d'una reintegrazione di una Chiesa nell'altra; affermo soltanto che la sola Chiesa d'Inghilterra ha la possibilità, per organizzazione e tradizione e per i suoi rapporti nel passato con la vita religiosa e sociale del popolo, di servire al nostro scopo, e che nessuna evoluzione in senso cristiano potrà avvenire, in Inghilterra, senza di essa.

La Chiesa di una società cristiana dovrebbe quindi avere un rapporto con i tre elementi di una società cristiana che ho menzionato in precedenza. Dovrebbe possedere un'organizzazione gerarchica in relazione diretta ed ufficiale con lo Stato: una relazione che comporta sempre il pericolo di scadere a soggezione. Inoltre, un'organizzazione, simile al sistema parrocchiale, in diretto contatto con i più piccoli nuclei della comunità e con i loro singoli membri. E infine dovrebbe mantenere, per mezzo dei suoi rappresentanti più intellettualmente dotati, più dotti e devoti, dei suoi macini di teologia ascetica come dei suoi uomini di più larghi interessi, un rapporto con la "Comunità dei Cristiani”.

Nelle questioni dogmatiche, di fede e di morale, la sua autorità sarà definitiva nell'ambito della nazione: in questioni di carattere più incerto essa parlerà per bocca degli individui che vivono nel suo seno.

In certi momenti la Chiesa potrebbe, anzi dovrebbe, venire in conflitto con lo Stato, sia perché rimproveri a questo il rinnegamento di una determinata politica, sia perché si difenda da ingerenze del potere temporale, sia perché protegga la comunità contro la tirannia e affermi i diritti conculcati o, infine, perché combatta opinioni eretiche e leggi e misure amministrative immorali . Potrebbe darsi che talvolta la gerarchia della Chiesa venisse attaccata dalla "Comunità dei Cristiani" o da gruppi particolari entro di essa: questo perché ogni organizzazione è sempre in pericolo di corrompersi ed ha bisogno di una continua attività interna di riforma,

Per quanto non m'interessino qui i mezzi per realizzare una società cristiana, è pur sempre necessario considerarne l'idea in relazione alle particolari società già esistenti. Non ci si aspetta infatti, né si desidera, che la sua costituzione sia identica in tutti i paesi cristiani. Io non ritengo che il rapporto fra Chiesa e Stato in Inghilterra, com'è adesso o anche come potrebbe essere, vada preso a modello per tutte le altre comunità. Che la Chiesa "costituita" sia o non sia teoricamente la soluzione migliore non m'importa. Se in Inghilterra non l'avessimo, potremmo discuterne la convenienza; ma poiché l'abbiamo, dobbiamo accettare la situazione quale è. Tuttavia consideriamo per un momento i vantaggi della soluzione opposta, cioè della separazione della Chiesa d'Inghilterra dall'organizzazione statale. I fautori, nell'ambito della Chiesa stessa, di una separazione dallo Stato12 adducono molte ragioni persuasive. Gli abusi e gli scandali a cui una tale riforma porterebbe rimedio, le incoerenze che eliminerebbe, i vantaggi che procurerebbe, sono troppo evidenti per venire elencati. Tuttavia gli abusi ed i difetti d'altro genere che potrebbero manifestarsi in una Chiesa separata dallo Stato non sono stati forse considerati con sufficiente attenzione. Ma quel che qui mi sta molto più a cuore di mettere in evidenza è la gravità delle rinunce a cui la Chiesa, volontariamente o costretta, si assoggetterebbe. Astraendo dai difetti che potrebbero essere corretti senza ricorrere ad un rimedio così estremo, sono pronto ad ammettere che una Chiesa “costituita” resta esposta a tentazioni ed influenze particolari: vantaggi maggiori si contrappongono a maggiori difficoltà. Ma se riflettiamo un momento comprendiamo che la Chiesa, una volta separata dallo Stato, non può venir facilmente reintegrata nella nostra costituzione e che l'atto stesso di separarla la allontana dalla vita della nazione più definitivamente ed irrevocabilmente che se non fosse mai stata “costituita”. L'effetto sull'animo del popolo di un ritiro aperto e drammatico della Chiesa dagli affari della nazione, l'effetto dell'esplicito riconoscimento di due criteri e di due modi diversi di vita, oltre che dell'abbandono da parte della Chiesa di tutti coloro che non appartengono, per una chiara professione di fede, al suo gregge, tutto ciò è incalcolabile. I rischi sono così grandi che ad un simile atto si può ricorrere soltanto come ad un rimedio disperato per uno stato di cose che, secondo me, non esiste ancora: che, cioè, la divisione fra cristiani e non cristiani sia già, o sia per essere, così chiara da poter venire espressa in cifre.

Per chi, come me, crede che la grande maggioranza delle persone non è né cristiana né non cristiana, ma vive in una specie di “terra di nessuno”, la questione appare molto diversa: la separazione della Chiesa dallo Stato non sarebbe il riconoscimento di una fase a cui siamo giunti, ma la creazione di una situazione di cui non possiamo prevedere gli ulteriori sviluppi.

La riforma della Chiesa “costituita” è un problema di cui non posso qui occuparmi ed il cui studio richiederebbe familiarità con il diritto pubblico, canonico e civile. Ma non credo che l'argomento citato spesso dagli avversari della Chiesa di Stato, e riguardante la prosperità della Chiesa del Galles dopo la sua separazione, sia applicabile nel nostro caso. Senza parlare delle differenze etniche di temperamento, di cui pur bisogna tener conto, non si possono vedere i pieni effetti di una separazione dall'esempio offerto da una piccola parte della Gran Bretagna; ed anche se la separazione valesse per l'intera isola, tutti gli effetti non si farebbero sentire subito. Inoltre io penso che la tendenza del nostro tempo è di opporsi all'idea che la vita religiosa e quella mondana, tanto dell'individuo come della comunità, siano due territori separati ed autonomi. So che dalla Germania si è diffusa una teologia che vuole la separazione assoluta della vita dello spirito dalla vita terrena. Una dottrina del genere appare più plausibile nei momenti in cui la politica della Chiesa è soltanto difensiva, quand'essa è soggetta a persecuzioni quotidiane, quando i suoi fini spirituali vengono messi in dubbio e la sua immediata necessità è di mantenersi viva e conservare integra la propria dottrina. Ma è una teologia incompatibile con i presupposti sui quali si fonda tutto ciò che io ho detto sinora. La vita moderna, sempre più complessa, la rende inaccettabile, giacché, lo ripeto, noi ci troviamo di fronte a problemi essenziali che non nascono soltanto dalla necessità di cooperare coi non cristiani, ma dalla nostra inevitabile partecipazione ad istituzioni e sistemi non cristiani. Infine, vi si oppone anche il totalitarismo perché esso tende a riaffermare, su un livello più basso, il carattere religioso-sociale della comunità. D'altra parte, io sono convinto che non è possibile ottenere una società nazionale cristiana, una comunità religioso-cristiana, una società con una filosofia politica fondata sulla fede cristiana, se si può contare soltanto su un agglomerato di piccole sette indipendenti. La fede nazionale dev'essere ufficialmente riconosciuta dallo Stato, essere accolta con uno statuto ben definito nella comunità ed avere una base di convinzione nel cuore dell'individuo.

L'eresia viene spesso definita come la valorizzazione di una mezza verità; ma può anche essere un tentativo di semplificare la verità, di ridurla nei limiti della nostra intelligenza piuttosto che estendere la nostra ragione fino alla comprensione della verità. (Il monoteismo ed il triteismo sono più facili da capire che non il concetto di trinità.) Abbiamo già visto i risultati deplorevoli del tentativo d'isolare la Chiesa dal mondo; ma non mancano neppure esempi del fallimento del tentativo di integrare il mondo nella Chiesa. Così dobbiamo anche stare in guardia quando si tenta d'integrare la Chiesa nel mondo. Un pericolo costante di una Chiesa “costituita” è l'erastianismo4; non occorre ricordare l'Inghilterra del Settecento o la Russia di anteguerra per rendercene conto. Ma la conseguenza più grave di una simile situazione, per deplorevole che sia, non sta tanto nello scandalo immediato e aperto, quanto nei risultati ultimi dell'erastianismo. Alienando l'animo delle masse dal cristianesimo ortodosso, portando il popolo ad identificare la Chiesa con la gerarchia ecclesiastica di un momento particolare ed a nutrire il sospetto che essa sia lo strumento di un'oligarchia o di una classe, l'erastianismo fa gli animi accessibili ad entusiasmi irresponsabili ed irriflessivi che sono seguiti da una nuova ondata di paganesimo.

Il pericolo che una Chiesa nazionale diventi una Chiesa di classe non è tale, per ora, da destare preoccupazioni. Oggi che è possibile essere una persona “rispettabile” senza far parte della Chiesa d'Inghilterra o senza essere neppure cristiano, si può anche far parte della Chiesa d'Inghilterra senz'essere, per ciò, una persona rispettabile. Il rischio che una Chiesa nazionale diventasse nazionalista13 non poteva preoccupare coloro che ci precedettero nello studio dei rapporti tra Chiesa e Stato perché il pericolo del nazionalismo di per sé, o quello della soppressione pura e semplice del cristianesimo, non potevano essere presenti al loro spirito. Tuttavia il pericolo è sempre esistito: per alcuni Roma è ancora associata al nome della Grande Armada e al Westward Ho! di Kingsley5. Una Chiesa nazionale, infatti, tende a rispecchiare soltanto le abitudini religiose e sociali della nazione, ed i suoi membri, isolati dalle comunità cristiane di altri paesi, rischiano di smarrire ogni criterio per distinguere, entro il loro sistema religioso-sociale, l'universale dal provinciale, o dal fortuito o irrilevante. Entro certi limiti è giusto che i culti della Chiesa universale varino secondo il temperamento etnico e la tradizione culturale delle singole nazioni. Il cattolicesimo romano non è identico (per il sociologo, se non per il teologo) in Spagna ed in Francia, in Irlanda e negli Stati Uniti, e, se non fosse per la presenza di un'autorità centrale, differirebbe ancora di più da paese a paese. La tendenza a differenziarsi può essere non meno forte tra comunità della stessa fede in paesi diversi che fra sette diverse nello stesso paese; può anche accadere che tutte le sette di un paese siano accomunate da caratteristiche che nessuna di esse condivide poi con la corrispondente comunità religiosa all'estero.

Nel passato i mali di un cristianesimo nazionalista erano mitigati dalla relativa fiacchezza della coscienza nazionale e dalla forza della tradizione cristiana. Non che mancassero affatto: vi furono missionari accusati di esaltare (per ignoranza, e non per malizia) i costumi e la mentalità di quei gruppi sociali a cui essi stessi appartenevano, invece di presentare agli indigeni gli elementi essenziali della fede cristiana in maniera che potessero armonizzarli con la loro cultura. D'altra parte io credo che alcuni avvenimenti degli ultimi venticinque anni abbiano favorito il riconoscimento di una società cristiana soprannazionale: poiché se questo non è il significato di conferenze come quelle di Losanna, Stoccolma, Oxford, Edimburgo e Malines, allora non vedo proprio qual è la loro utilità. Il proposito di chi affronta la fatica di organizzare i contatti e gli scambi fra le Chiese ufficiali di' diversi paesi, non è solo di fornire a coloro che viaggiano la comodità di avvalersi dei rispettivi sacramenti, ma di affermare l'universalità della Chiesa sulla terra. Certamente nessuno oggi può difendere l'idea di una Chiesa nazionale senza il contrappeso d'una Chiesa universale, e senza ricordare che la verità è una e che la teologia non ha frontiere.

I pericoli ai quali è esposta una Chiesa nazionale, finché la Chiesa universale resterà una pia aspirazione, mi sembrano cosi evidenti che basta elencarli perché tutti si convincano. Identificandosi completamente con un determinato popolo, la Chiesa nazionale può ridursi in qualsiasi momento, ma specialmente in periodi di tensione, ad essere soltanto la voce delle prevenzioni, delle passioni o dell'interesse di quel popolo. Ma v'è un altro pericolo non cosi facile da scoprire. Come ho già detto, l'idea di una società cristiana presuppone, per me, l'esistenza d'una Chiesa che miri ad abbracciare tutta una nazione. Senza questa mira ricadremmo in quel conflitto fra l'appartenenza allo Stato e l'appartenenza alla Chiesa, fra moralità pubblica e privata, che rende oggi a tutti cosi difficile una vita morale, e che provoca soluzioni semplicistiche e monistiche, come la statolatria, o il razzismo, soluzioni che la Chiesa nazionale può combattere soltanto riconoscendosi parte della Chiesa universale. Se invece immaginiamo come ideale per l'Europa (per limitarci a questo continente) soltanto una specie di "società delle società cristiane", potremmo tendere inconsciamente a considerare una Chiesa universale soltanto come una specie di soprannaturale Società delle Nazioni. L'obbedienza dell'individuo non andrebbe che alla Chiesa nazionale, e la Chiesa universale rimarrebbe un'astrazione o diverrebbe un'arena per gli interessi contrastanti delle varie nazioni. In realtà la differenza tra la Chiesa universale ed una Società delle Nazioni perfezionata è questa; che l'obbedienza dell'individuo alla sua Chiesa sarebbe secondaria rispetto alla sua obbedienza alla Chiesa universale. Se la Chiesa nazionale non è una parte del tutto, essa non mi attira: ma una Società delle Nazioni che possa pretendere obbedienza dall'individuo, prima e al disopra del suo stesso paese, è una chimera che ben poche persone devono aver mai cercato di raffigurarsi. Ho parlato più d'una volta della situazione insostenibile di colui che tenta di vivere una vita cristiana in un mondo non cristiano. Occorre, tuttavia, rendersi conto che anche in una società cristiana organizzata nel modo più perfetto che sia immaginabile su questa terra, la conquista massima sarebbe la creazione di una armonia fra la nostra vita temporale e la spirituale: ad una identificazione vera e propria non si arriverebbe mai. Rimarrebbe sempre una duplice fedeltà, verso lo Stato e verso la Chiesa, verso i propri compatrioti e verso i cristiani di tutto il mondo: e quest'ultima fedeltà prevarrebbe sempre sull'altra. Ma esisterebbe sempre una tensione. Questa tensione è essenziale all'idea di una società cristiana ed è un segno che la distingue da una società pagana.



Capitolo quarto


Dovrebbe essere ovvio che la forma politica che uno Stato cristiano deve avere non rientra nell'ambito della nostra discussione. Identificare una qualunque forma di governo col cristianesimo è un errore pericoloso, perché si confonderebbe il permanente con il transitorio, l'assoluto con il contingente. Le forme di governo e d'organizzazione sociale mutano e si evolvono di continuo e possono in pratica differire considerevolmente dalle teorie che dovrebbero esemplificare. Una teoria dello Stato può essere, esplicitamente o implicitamente, anticristiana: può attribuire allo Stato dei diritti spettanti alla Chiesa soltanto, o decisioni su questioni morali che solo la Chiesa può pronunziare. In pratica, però, un regime può esigere di più o di meno di quanto non proclami in teoria, sì che occorre esaminarne gli atti concreti non meno delle affermazioni teoriche. Non abbiamo alcuna garanzia che un regime democratico non finisca per essere tanto anticristiano negli atti quanto un altro lo è in teoria, ne bisogna dimenticare che il governo migliore deve essere adeguato al carattere e al grado d'intelligenza e d'educazione di un certo popolo in un certo luogo ed in un certo momento. Chi ritiene che un discorso sulla società cristiana dovrebbe terminare incoraggiando una determinata forma di ordinamento politico, si domandi se pensa davvero che la nostra forma di governo sia più importante del nostro cristianesimo; e chi è persuaso che l'attuale sistema politico in Inghilterra sia il più adatto per qualsiasi popolo cristiano, si chieda se egli non confonde per caso la società cristiana con una società dove il cristianesimo dei singoli individui viene solamente tollerato.

Questo saggio non vuole essere un manifesto anticomunista né antifascista. Forse il lettore avrà ormai dimenticato quanto ho detto all'inizio; cioè che le più superficiali, anche se importanti, differenze tra i governi delle varie nazioni m'interessano assai meno di quelle, più profonde, fra le società pagana e cristiana. La politica è stata al centro delle nostre preoccupazioni in questi ultimi anni, e questo, invece di indurci a fare un serio esame di coscienza, ci ha procurato un vano senso di compiacenza verso noi stessi. Talvolta quasi ci persuadiamo che le cose procedono benissimo, con qualche riforma qui e qualche riforma là, come siamo usi fare, e che andrebbero ancor meglio se i governi stranieri non seguitassero a trasgredire a tutte le regole ed a giocare un gioco che in definitiva non è il nostro. Ma è ancor più scoraggiante riflettere che soltanto la paura o la gelosia dei successi altrui hanno il potere di metterci in allarme sulle condizioni del nostro paese; che soltanto a causa di quest'ansia ci accorgiamo che lo spopolamento, la denutrizione, l'abbassamento del livello morale, l'abbandono dell'agricoltura, sono veramente dei mali. Allora, peggio che mai, s'invoca il cristianesimo, non perché è verità, ma perché potrebbe servire. Verso la fine del '38, sperimentammo in Inghilterra un'ondata di "rinascita religiosa"14 che dovrebbe insegnarci come la follia non sia prerogativa di certi partiti o di una determinata organizzazione religiosa, e come l'isterismo non sia un privilegio degli ignoranti.

Il cristianesimo professato era nebuloso ed il pio fervore si risolse in un fervore per la democrazia. Che cosa può nascere da fenomeni simili se non un nazionalismo mascherato e particolarmente ipocrita che accelererebbe il nostro progresso verso quel paganesimo che diciamo di aborrire? Giustificare il cristianesimo perché esso offre una base morale, invece di dimostrare che la morale cristiana è necessaria perché il cristianesimo è verità, è un'inversione di termini pericolosa. Vale la pena di riflettere che gli Stati totalitari, con una costanza che non sempre si trova nelle democrazie, hanno dedicato una buona parte delle loro cure ad introdurre nella vita nazionale un fondamento morale, forse sbagliato, ma certo molto più definito. Ciò che distingue una società cristiana da una società pagana non è l'entusiasmo, ma il dogma.

Nel quadro che ho fatto di una società cristiana ho cercato di limitare le mie esigenze, nei riguardi dei suoi ipotetici membri, ad un minimo di qualità sociali: io non prevedo una società di santi ma di uomini comuni, per i quali il cristianesimo è un'esperienza collettiva prima che individuale. È molto facile, meditando su un futuro ordine sociale cristiano, adagiarsi in una specie di visione apocalittica di un aureo periodo di virtù. Ma non dobbiamo dimenticare che il Regno di Cristo in terra non sarà realizzato mai e che, nondimeno, esso si realizza ogni momento; non dobbiamo dimenticare che nessuna riforma o rivoluzione potrà conseguire più d'un sordido simulacro di ciò che la società umana dovrebbe essere - e che, nondimeno, il mondo non rimane mai del tutto senza gloria.

In una società quale io l'immagino, come in ogni società non pietrificata, resteranno sempre innumerevoli germi di decadenza. Infatti, ogni “piano” umano per una nuova società si realizza solo quando la grande massa degli uomini si è adeguata ad esso. Ma, insensibilmente, anche il piano stesso viene adeguandosi alla massa su cui agisce: la pressione schiacciante della mediocrità, pesante e irrefrenabile come un ghiacciaio, modererà sempre le rivoluzioni più violente e più esaltate. Ciò che si ottiene in pratica è così diverso dall'immagine creata dall'entusiasmo che un'esatta previsione fiaccherebbe lo sforzo rivoluzionario. Una società completamente cristiana potrebbe anche avere un basso livello medio; essa impegnerebbe la cooperazione di molti il cui cristianesimo sarebbe inconsistente o superstizioso o falso, e di molti che sarebbero spinti in primo luogo da motivi mondani ed egoistici. Essa avrebbe costantemente bisogno di riforme.

Con questo non voglio affatto dire che le forme più alte di vita religiosa siano d'importanza secondaria per una società siffatta. È vero che ho insistito più sull'aspetto comunitario che su quello individuale: una comunità d'uomini e di donne, non migliori, individualmente, di adesso, ma con la differenza essenziale di essere tutti cristiani. Il cristianesimo darebbe loro anche un'altra cosa che ora non hanno: il rispetto per la vita religiosa, per la vita di preghiera e di contemplazione, e per coloro che tentano di praticarla. Con ciò non chiedo al cristiano inglese più di quanto è caratteristico di ogni musulmano o di ogni indù. Il quadro sociale entro cui vive dovrebbe dare all'uomo comune la possibilità di vedere che la vita religiosa esiste realmente, che ad essa è assegnato il debito posto, dovrebbe dare a lui la possibilità di riconoscere tutto il valore insito nella professione di coloro che hanno abbandonato il mondo, così come egli riconosce il valore delle professioni praticate nel mondo. Io non posso concepire una società cristiana senza ordini religiosi, anche ordini puramente contemplativi, anche ordini di clausura. E, incidentalmente, non vorrei che si pensasse alla "Comunità dei Cristiani", di cui ho già parlato, soltanto come ad un gruppo di persone dell'alta borghesia, tra le più simpatiche, le più intelligenti, le più coscienti del bene pubblico: un'analogia di questo genere sarebbe certamente errata.

Possiamo dire che la religione, in quanto distinta dal paganesimo moderno, è essenzialmente legata ad una condotta di vita conforme alla natura. Si potrebbe anche osservare che la vita naturale e la soprannaturale hanno una corrispondenza reciproca che nessuna delle due ha nei riguardi della vita concepita secondo criteri meccanicistici; ma la nostra idea del naturale è stata deformata a tal punto che persone, le quali ritengono innaturale, e quindi ripugnante, che un uomo od una donna conducano una vita di celibato, giudicano perfettamente naturale limitare ad uno o a due i figli in una famiglia. Forse sarebbe più naturale, ed anche più conforme alla volontà di Dio, se vi fossero più celibi e se coloro che sono sposati avessero prole più numerosa. In ogni modo io penso ad una "conformità alla natura" in un senso più alto. Noi stiamo accorgendoci che l'organizzazione della società sulle basi del profitto individuale e della distruzione collettiva dei beni conduce sia al deturpamento dell'umanità attraverso un industrialismo indisciplinato, sia all'esaurimento delle risorse naturali. Buona parte del nostro progresso materiale sarà pagata, forse, a caro prezzo dalle generazioni future; basterà citare, come un esempio di cui s'è molto parlato recentemente, i risultati dell' "erosione del suolo", dovuta allo sfruttamento cui sono state sottoposte le terre, su vasta scala e durante due generazioni successive, per motivi di profitto commerciale: benefici immediati che portano l'aridità ed il deserto. Non che io condanni una società per la sua rovina materiale, perché ciò equivarrebbe a fare del successo materiale la pietra di paragone della sua validità; voglio solo dire che ad un atteggiamento falso di fronte alla natura corrisponde, in un modo o nell'altro, anche un atteggiamento falso di fronte a Dio, e che la conseguenza di tutto ciò è un'inevitabile catastrofe. Per troppo tempo abbiamo creduto soltanto nei valori che sono il prodotto di una vita dove gli elementi fondamentali sono la macchina, il commercio, la metropoli: forse sarebbe bene che riflettessimo sulle condizioni immutabili alle quali Dio ci permette di vivere su questo pianeta. E, senza fare del sentimentalismo sulla vita dei selvaggi, potremmo notare in tutta umiltà, in alcune delle società da noi ritenute primitive o retrograde, l'azione di un sistema sociale, religioso ed artistico meritevole di venir da noi emulato su un piano più alto. Abituati a considerare il progresso come qualche cosa di indivisibile, dobbiamo ancora imparare che solo con uno sforzo ed una disciplina più severi di quanto la società abbia sentito finora il bisogno d'imporre a se stessa si può acquistare la conoscenza ed il potere materiali senza perdere la conoscenza ed il potere spirituali. Mi sembra che la spiegazione e la giustificazione della vita di D. H. Lawrence, la scusa per le sue aberrazioni, siano appunto nella lotta che egli sostenne per ritrovare il senso dei nostri rapporti con la natura e con Dio, nel suo riconoscimento che anche i sentimenti più primitivi potrebbero far parte della nostra eredità spirituale. Ma non dobbiamo solo imparare a guardare il mondo con gli occhi di un indiano del Messico (e non credo, del resto, che D. H. Lawrence vi sia riuscito). Non possiamo certo fermarci lì. Abbiamo bisogno di vedere il mondo come lo videro i padri della Chiesa, e questo rifarsi alle origini dovrebbe permetterci di ritornare alla nostra situazione presente con una più vasta preparazione spirituale. Abbiamo bisogno di riguadagnare il senso del timore religioso per poterlo superare con la speranza religiosa.

Non vorrei lasciare al lettore l'impressione di avergli ammannito un altro schema dilettantistico di un avvenire astratto e irrealizzabile: il solito paradigma che serve al teorico per criticare gli sforzi quotidiani degli uomini politici. Questi sforzi devono continuare: ma finché non troveremo una struttura in cui tutti i problemi della vita potranno avere il loro posto, probabilmente non faremo che aggravare il caos. Finché, ad esempio, considereremo la finanza, l'industria, il commercio, l'agricoltura solo come interessi concorrenti, da conciliare di volta in volta nel miglior modo possibile, finché riterremo che l'educazione sia un bene di per sé, del quale ciascuno ha diritto di godere nella misura massima, senza avere nessun ideale chiaro di ciò che è una buona vita per la società o per l'individuo, non faremo che passare da un faticoso compromesso all'altro.

Vi è una sola alternativa all'organizzazione rapida e semplice della società per il raggiungimento di fini che, essendo soltanto materiali e mondani, si riveleranno transitori come ogni successo mondano. Poiché la filosofia politica riceve la sua sanzione dall'etica, e l'etica dalla verità religiosa, soltanto col ritorno alle fonti della verità possiamo sperare in un'organizzazione sociale che non ignori, pena la sua stessa distruzione, alcun aspetto essenziale della realtà. Come ho detto e ripetuto, il termine “democrazia” non ha un contenuto positivo sufficiente per opporsi, solo, alle forze che avversiamo e che possono snaturarlo troppo facilmente. Chi non desidera Dio (ed è un Dio geloso) non ha che da inchinarsi davanti ad Hitler o a Stalin.

Io credo che, come me, molte persone furono scosse profondamente, e in modo che non è più possibile dimenticare, dagli avvenimenti del settembre del '38; quel mese ci diede tutta la misura della vastità della crisi. Non fu la nostra intelligenza a subire la scossa: gli avvenimenti di per sé non erano sorprendenti. E neppure, come apparve sempre più evidente, lo smarrimento poteva essere attribuito soltanto alla nostra disapprovazione per la politica e la condotta adottate in quel momento. Il sentimento nuovo ed inatteso fu un sentimento di umiliazione che pareva richiedesse da noi un atto di contrizione, di umiltà, di pentimento e di ammenda; ciò che era accaduto riguardava ognuno di noi e ne impegnava profondamente la responsabilità. Ripeto, non si trattava di un dissenso sulla politica del governo, ma d'un dubbio sulla ragion d'essere di tutta una civiltà. Non potevamo opporre una convinzione ad un'altra, non avevamo idee che potessero farsi incontro né opporsi alle altre che ci stavano di fronte. La nostra società, che è sempre stata così certa della propria superiorità ed onestà, così fiduciosa nelle sue premesse mai approfondite, ci sembrò all'improvviso raccolta attorno a nient'altro di più permanente che una catena di banche, compagnie di assicurazioni ed industrie, sì che parve che nessun'altra fede l'animasse, se non quella nell'interesse composto e nell'intangibilità dei dividendi. Pensieri come questi mi hanno indotto a parlare e debbono restare a giustificazione di ciò che ho detto.15

6 settembre 1939

Questo libro, incluse la prefazione e le note, fu terminato di scrivere prima che si sapesse della guerra. Ma la possibilità d'un conflitto, divenuta adesso una realtà, mi è sempre stata presente. Le uniche osservazioni che vorrei aggiungere sono queste: anzitutto l'allineamento di forze ora rivelatesi dovrebbe renderci più chiara l'alternativa fra cristianesimo e paganesimo; in secondo luogo, non possiamo permetterci di rimandare ogni pensiero costruttivo alla fine delle ostilità, un momento in cui, come sappiamo per esperienza, la saggezza viene generalmente messa nell'ombra.






Poscritto


Un noto teologo, che è stato abbastanza cortese da leggere questo libro in bozza, mi ha fatto alcune critiche di cui avrei voluto valermi in una revisione integrale del testo. Egli mi ha concesso di citare un brano delle sue osservazioni, che il lettore potrà trovare utile per correggere qualche difetto nella mia esposizione:

“Le tesi principali sostenute in questo libro mi sembrano così importanti, e il loro accoglimento così urgentemente necessario, che desidero richiamare l'attenzione su due punti che, secondo me, devono essere posti in maggior rilievo se non si vuole che il vero senso dell'argomentazione vada perduto.

Un punto essenziale del problema, per ciò che concerne la Chiesa e i suoi membri, è che noi non ci rendiamo sufficientemente conto di un fatto fondamentale: che il cristianesimo è anzitutto un messaggio evangelico, un dogma, un complesso di credenze intorno a Dio, al mondo e all'uomo, il quale esige da noi una risposta fatta di fede e di pentimento. L'errore comune sta nel mettere in primo piano questa risposta umana, con la conseguenza di fare del cristianesimo soprattutto una religione. Da ciò deriva la nostra tendenza a guardare i problemi quotidiani alla luce di ciò che è possibile praticamente, piuttosto che di ciò che ci impongono quei principi di verità di cui la Chiesa testimonia.

In secondo luogo la "Comunità dei Cristiani" resta quasi sempre nel vago. Ho paura che essa verrà intesa come un'associazione di brave persone, di buoni cristiani appartenenti all'alta borghesia. Ora, l'espressione "Comunità dei Cristiani" dovrebbe designare coloro che sono uniti nella vita sacramentale della Chiesa visibile: la loro comunione nella vita della fede dovrebbe generare anche una comune visione dei problemi quotidiani. In realtà non si può pretendere che il pensiero della "Comunità dei Cristiani" si rifletta fedelmente nelle affermazioni che la Chiesa fa di tanto in tanto: il pensiero non prende forma immediatamente in questi argomenti dov'è così difficile scorgere la via giusta. Ma nei veri cristiani dovrebbero essereci (e ci sono già in un certo grado) un senso delle proporzioni ed uno spirito di disciplina che sgorgano direttamente da una vita di fede: appunto queste qualità dovrebbero essere utilizzate se vogliamo risolvere i nostri problemi alla luce dei principi cristiani”.

Appendice


La seguente conversazione radiofonica, pronunciata nel febbraio del 1937 nel corso di una serie di conferenze su “La Chiesa, la Comunità e lo Stato”, e pubblicata in “The Listener”, si ricollega all' argomento trattato nelle pagine precedenti.

Che tra la Chiesa e il mondo vi sia antitesi, la più alta delle autorità lo afferma. Lo studio della storia c'insegna, d'altronde, che una certa tensione tra Chiesa e Stato è augurabile. Quando tra la Chiesa e lo Stato il distacco è completo, la cosa pubblica ne soffre, e quando la Chiesa e lo Stato vanno troppo d'accordo, è la Chiesa che ne soffre. Ma la distinzione tra Chiesa e mondo non è così facile da tracciare come quella tra Chiesa e Stato. Non è, infatti, di una comunità o di una organizzazione ecclesiastica determinata che si vuol parlare, ma di tutti i cristiani in quanto tali; e non di alcuno Stato in particolare, ma di tutta la società, di tutto il mondo nel suo aspetto secolare. L'antitesi non riguarda soltanto due opposti gruppi di individui: ogni individuo di per sé è un campo dove le forze della Chiesa e del mondo si combattono.

Quando si dice “messaggio della Chiesa al mondo”, s'intende forse soltanto che il compito della Chiesa sia di continuare a parlare? lo sono del parere che sarebbe più consono alla gravità della situazione dire che “compito della Chiesa è d'intervenire negli affari del mondo”. Secondo un principio generalmente ammesso, e che io disapprovo, “si deve vivere e lasciar vivere". Così se lo Stato non s'immischia in ciò che fa la Chiesa, e la protegge fino ad un certo punto dalle molestie che possono esserle arrecate, la Chiesa perde il diritto di occuparsi dell'ordinamento della società o della condotta di chi nega i suoi principi di fede. Si ritiene comunemente che qualsiasi ingerenza della Chiesa sarebbe il tentativo di una minoranza di opprimere la maggioranza. Ora io dico che i cristiani devono considerare il loro dovere in modo molto diverso. Ma, prima di descrivere in quale maniera la Chiesa potrebbe intervenire nelle cose del mondo, dobbiamo tentare di rispondere ad un'altra domanda: per quale ragione dovrebbe intervenire?

È bene dire chiaro e netto che non è possibile alcun modus vivendi duraturo tra la Chiesa e il mondo. Si può essere indotti inconsciamente a stabilire una falsa analogia fra la posizione della Chiesa in una società laica e la posizione di una setta dissenziente in una società cristiana. In realtà, sono due situazioni molto diverse. Una minoranza dissenziente in una società cristiana può sussistere grazie alle credenze fondamentali che ha in comune con quella società, grazie a una moralità comune e a un terreno comune d'azione cristiana. Ma dove c'è una morale differente, subito nasce il conflitto. Non voglio dire che la Chiesa esista anzitutto per propagare la morale cristiana; la morale è un mezzo, non un fine. La Chiesa esiste per la gloria di Dio e per la santificazione delle anime, e la morale cristiana fa parte dei mezzi per conseguire questi fini. Ma, fondandosi i principi della morale cristiana su credenze fisse e immutabili, sono essenzialmente immutabili anch'essi, mentre le credenze, e quindi anche la morale, del mondo laico possono cambiare da individuo a individuo, da generazione a generazione, da nazione a nazione. Accettare due modi di vita nella stessa società, uno per i cristiani e uno per gli altri, significherebbe per la Chiesa tradire la sua missione di evangelizzare il mondo. Poiché, quanto più il mondo non cristiano si fa estraneo, tanto più difficile diventa la sua conversione.

La Chiesa non è destinata soltanto agli eletti, ossia a coloro che per temperamento sono portati alla fede e alla vita cristiana. D'altra parte, essa non permette neppure che in alcuni dei nostri rapporti con la società si sia cristiani e in altri no. La Chiesa vuole tutti, e vuole ogni individuo nella sua integrità. Perciò essa deve lottare per una società che offra a ciascuno di noi la massima opportunità di condurre una vita cristiana, e la massima opportunità agli altri di diventare cristiani. La Chiesa conserva il paradosso secondo il quale, mentre ciascuno di noi è responsabile per la propria anima, lo siamo anche, tutti, per tutte le altre anime che come noi sono in cammino verso una futura condizione, sia celeste o infernale. Inoltre, ed è questo un altro paradosso, mentre l'atteggiamento cristiano nei confronti della pace, della felicità, del benessere materiale dei popoli è di considerare queste cose come mezzi e non come fini in sé, tuttavia i cristiani sono più intimamente tenuti a tradurre in atto questi ideali di quanto non siano coloro che li considerano come fini in sé.

Come dovrà dunque la Chiesa intervenire nelle cose del mondo? Non ho intenzione di passare il tempo che ancora mi rimane accusando il fascismo e il comunismo. Questo compito è stato assolto con maggiore abilità da altri, e le conclusioni a cui sono giunti possono essere accettate come valide. Mettendomi sulla loro strada, finirei per ottenere un plauso che non desidero, giacché ho il sospetto che molta della nostra ripugnanza per queste teorie si appoggi su ragioni false non meno che sulle giuste, e sia improntata a vana compiacenza e ad ipocrisia. Criticare degli stranieri è facile, sicuro, e anche piacevole: ha il vantaggio di distogliere l'attenzione dai mali che affliggono la nostra società. Inoltre, dobbiamo distinguere tra una opposizione alle idee e una disapprovazione per ciò che in pratica avviene. Il fascismo e il comunismo professano idee fondamentali che sono incompatibili con il cristianesimo. Ma, in pratica, uno Stato fascista o comunista potrebbe realizzare le sue idee più o meno compiutamente, ed essere perciò più o meno intollerabile. D'altra parte, certi sistemi fascisti o comunisti, o altri non meno riprovevoli, potrebbero facilmente introdursi in una società che, a parole, segua principi molto diversi. Non vi è ragione per ritenere che la nostra forma di democrazia costituzionale sia l'unica adatta ad un popolo cristiano, o che sia di per se stessa una garanzia contro un mondo anticristiano. Perciò, invece di limitarci a condannare fascismo e comunismo, faremmo bene a riflettere che anche noi viviamo in una civiltà di massa, dove si seguono molte ambizioni e desideri sbagliati, e che, se la nostra società rifiuterà del tutto l'obbedienza che deve a Dio, non diverrà migliore, ma forse peggiore di certe altre universalmente esecrate.

Parlando del "mondo", io intendo quindi soprattutto il mondo nostro, inglese. L'influenza della Chiesa può manifestarsi in modi diversi. La Chiesa può contrastare o può sostenere un'azione particolare in un particolare momento. La si acclama quando sostiene una causa che può contare già su di un valido appoggio nel mondo laico; la si attacca, ed è naturale, quando si oppone a cose che il popolo pensa di volere. Che si dica che la Chiesa deve intervenire nelle cose del mondo, o piuttosto che farebbe bene a badare ai propri affari, tutto dipende in fondo da questo: se il mondo e la Chiesa vanno d'accordo, oppure no, nella controversia che arde in quel determinato momento. Un problema molto difficile nasce tutte le volte che la Chiesa si trova a dover resistere ad una innovazione - sia nel campo legislativo che in quello delle usanze sociali ­ contraria ai principi cristiani. A chi nega o non accetta pienamente la dottrina cristiana, come a chi desidera interpretarla secondo i suoi lumi personali, tale resistenza appare spesso un sopruso. È facile presentare la Chiesa ad una mente irriflessiva come il peggior nemico del progresso. Essa può talvolta non essere abbastanza forte per resistere con fortuna, ma non vedo come potrebbe mai accettare in modo definitivo l'esistenza di due leggi, una per sé e un'altra per il mondo.

Non voglio comunque esaminare ad uno ad uno tutti i diversi problemi che potrebbero presentarsi. Ma vorrei dire che uno dei compiti della Chiesa nel nostro tempo è l'analisi più approfondita della società moderna, un'analisi che avrà inizio da questa domanda: fino a che punto i principi fondamentali sui quali poggia la nostra società non sono più soltanto neutri, ma dichiaratamente anticristiani?

Non dovrei aver bisogno di ripetere che tra il fine ultimo dell'uomo di Chiesa e gli scopi del riformatore laico vi è molta distanza. Finché il laico ha di mira una vera giustizia sociale, i suoi scopi devono rientrare in quelli dell'uomo di Chiesa. Ma uno dei motivi che mi pare rendano più facile il destino del riformatore laico, o del rivoluzionario, è questo: che in genere egli considera i mali del mondo come qualche cosa di esterno alla sua persona. O li immagina come completamente impersonali, suscettibili cioè di essere eliminati cambiando soltanto il “sistema”, oppure, se un male congenito esiste, è sempre congenito negli altri - in una classe, in una razza, negli uomini politici, nei banchieri, nei fabbricanti d'armi e così via - mai in lui stesso. Vi sono delle eccezioni, s'intende, ma appunto in quanto un uomo comprende la necessità di convertire se stesso oltre che il mondo, egli si avvicina al punto di vista religioso. Tuttavia la possibilità di semplificare le questioni in maniera da vedere soltanto, ben in risalto, la figura del nemico esterno, è per la maggior parte delle persone causa di grande godimento: conferisce quell'occhio brillante, quel passo elastico, che si accordano così bene con le divise di partito. È un godimento, questo, a cui il cristiano deve rinunziare, poiché nasce da uno stimolante artificiale che non può che avere conseguenze nocive. Genera l'orgoglio individuale e collettivo, e l'orgoglio crea la sua propria rovina.

Solamente nell'umiltà, nella carità e nella purezza - soprattutto nell'umiltà - possiamo disporci a ricevere la grazia di Dio, senza la quale le azioni degli uomini restano vane.

Non basta vedere il male, l'ingiustizia e le sofferenze di questo mondo e buttarsi a capofitto nell'azione. Dobbiamo imparare, e solo la teologia può insegnarcelo, perché queste cose sono sbagliate; altrimenti raddrizzeremo alcuni torti e ne creeremo degli altri. Se in questo mondo io e la maggior parte dei miei simili viviamo in una continua dimenticanza di Dio, la quale ci espone a quel supremo pericolo che è la separazione ultima e definitiva da Dio dopo la morte, bisogna allora riconoscere che vi è qualcosa di fondamentalmente sbagliato e che io devo contribuire per la mia parte a correggerlo. Se il fatto soltanto di vivere in società è sufficiente a coinvolgerci nella immoralità, la Chiesa deve considerare una situazione simile come estremamente grave. Io non sono un sociologo né un economista, e in ogni caso non sarebbe questo il luogo per bandire una formula adatta a rimettere il mondo in sesto. Spetta alla Chiesa indicare ciò che è errato, ciò che contrasta con la dottrina cristiana, piuttosto che proporre un piano preciso di riforma. Ciò che è giusto rientra nell'ambito dell'“opportuno” ed è condizionato dallo spazio, dal tempo, dal livello culturale e dal temperamento di un popolo. Ma ciò che è sempre e dovunque errato, la Chiesa lo può dire. Senza questa sicura convalida dei principi primi che è compito della Chiesa rinnovare senza sosta, il mondo continuerà a confondere il giusto con l'opportuno. In una società basata sul lavoro degli schiavi ci fu chi tentò di dimostrare con la Bibbia alla mano che la schiavitù era stata ordinata da Dio. Per la maggioranza delle persone, la società presente, o quella che essi vorrebbero creare nell'impeto delle loro passioni più generose, è la società giusta, ed il cristianesimo dovrebbe adattarvisi. Ma la Chiesa non può mai essere conservatrice o liberale o rivoluzionaria, nel significato politico di questi termini. Conservatorismo vuol dire troppo spesso conservazione di ciò che è errato; liberalismo, rilassamento della disciplina; rivoluzione, negazione delle realtà insopprimibili.

L'avarizia finirà forse per rivelarsi, dal punto di vista della Chiesa, il vizio dominante del nostro tempo. V'è certamente qualcosa di sbagliato nella nostra attitudine verso il denaro. Si incoraggia la volontà di possedere piuttosto che quella creativa o spirituale. Che il denaro non manchi mai quando serve a guadagnare altro denaro, mentre sia così difficile ottenerlo per gli scambi e per le necessità dei più indigenti, è un fatto che rende perplessi coloro che non sono economisti. lo non mi sento affatto sicuro di agir bene quando accresco le mie entrate comprando azioni di un'impresa, la quale svolge un'attività di cui io non mi rendo conto, opera magari a migliaia di chilometri di distanza, su cui non ho la minima possibilità di controllo, ma che, tuttavia, mi viene raccomandata come un sano investimento. Sono ancora meno sicuro di comportarmi moralmente prestando denaro ad interesse, e cioè investendo i miei averi in buoni del tesoro e in obbligazioni. So che è male speculare: ma dove passa la linea di confine tra la speculazione e il “legittimo investimento”? A dire il vero, mi sembra di essere un piccolo usuraio in un mondo amministrato per la massima parte da grossi usurai. So pure che un tempo la Chiesa condannava queste cose. E ritengo che la guerra moderna sia causata principalmente da un immorale sistema di concorrenza, il quale agisce anche in tempo di pace - e che, fin quando questo male non sarà curato, non vi saranno disarmi né piani di sicurezza collettiva, né conferenze, né convenzioni, né trattati che riusciranno ad impedire la guerra.

Ogni meccanismo, per quanto perfetto, per quanto sia un meraviglioso prodotto di ingegnosità e di abilità realizzatrice, può venir usato per un fine buono oppure malvagio: questo vale per il meccanismo sociale non meno che per le costruzioni d'acciaio. Io credo che, più importante dell'invenzione di una nuova macchina, sia creare nelle persone una disposizione dello spirito che le metta in grado di fare retto uso della macchina. E sarebbe ancora più importante, in questo momento, diffondere la conoscenza di ciò che è errato. Noi siamo tutti insoddisfatti della via che il mondo ha preso: c'è chi è convinto che siamo tutti più o meno responsabili di questo andazzo; c'è chi è convinto che, affidandoci interamente alla politica, alla sociologia, all'economia, non faremo che passare da un rimedio inefficace all'altro. Ed ecco allora il messaggio perpetuo della Chiesa: affermare, insegnare ed applicare la vera teologia. Non possiamo accontentarci d'essere cristiani durante le nostre devozioni e riformatori laici per il resto della settimana, giacché vi è una domanda che dobbiamo rivolgere a noi stessi ogni giorno e in ogni circostanza. La Chiesa deve rispondere perpetuamente a questa domanda: Perché siamo nati? Qual è il fine della vita umana?