giovedì, novembre 08, 2007

Epitaffio. Sublime.

"Posto che l'unico modo per vivere a lungo è invecchiare, quando un amico muore, abbia pure 87 anni, è sempre troppo giovane per andarsene via lasciandoci un po' più soli. Enzo Biagi aveva una cagionevole salute di ferro. Ebbe il primo di numerosi infarti a 49 anni. Dirigeva o stava per andare a dirigere il Resto del Carlino, dove aveva debuttato ventenne quale praticante. Una sera, nella sua sobria casa fra i calanchi di Sasso Marconi, a un tiro di fucile dal Reno, avvertì un dolore alla schiena. Strappo, reumatismo? Visita. Il medico aggrotta la fronte e dice: "Meglio ricoverare". Coronarie malandate. Un mese dopo, Enzo si dimentica del cuore matto e si butta nel rinnovamento del Carlino con l'intento di trasformarlo da regionale in nazionale. Ci riesce. Alla grande. Ma non fa in tempo a godersi i frutti delle ventimila copie recuperate: lo cacciano. Accusa: quel Biagi lì è un filino comunista.

In realtà, il Carlino ha sfrucugliato Preti, socialdemocratico, ministro delle Finanze. Questi è in rapporti con l'editore, Attilio Monti, il quale pur estimatore di Biagi (era stato lui in persona a volerlo al timone del quotidiano bolognese) non può andare contro il ministro delle Finanze (e della Guardia di finanza). La prudenza non è mai troppa quando ci si occupa di petrolio e generi affini. Il petroliere non aveva scelta: liquidare il signor direttore. Cui offre in cambio di un'uscita soft un appezzamento di terra. Enzo lo guarda stupito: mi prendi per scemo? E se ne va con una congrua somma, contanti. Questa storia dei soldi è diventata negli anni mitologica. Quando qualcuno non sapeva come denigrare il giornalista, ripiegava sulla sua esosità. Bravo è bravo, ma pensa solamente ai quattrini.

Ha il reddito di un banchiere. Balle. Però bisogna capire. Il 99 per cento degli iscritti al nostro Ordine campa di stipendio, buono finché vuoi ma pur sempre di stipendio si tratta. E con la busta paga non ci si arricchisce. Biagi invece era tra i pochi che non si accontentavano dei tran tran della redazione. Diceva: il giornale è l'ospedale, una garanzia. Poi c'è l'ambula torio, e qui arrotondi. Lui lavorava molto e bene, con metodo; e oltre ad arrotondare accumulava. Desiderava incassare cifre alte non per avidità. Il denaro gli forniva la prova di essere apprezzato. E gli dava soddisfazione umiliare la miseria che aveva patito da ragazzo. Sui suoi contratti si è sempre favoleggiato: di bocca in bocca, l'importo si moltiplicava. Gli è stato attribuito un patrimonio che non si è mai sognato di possedere.

Tra l'altro per sé spendeva pochi spiccioli, che maneggiava con fastidio. Una volta mi disse: a chi ti chiede un prestito di dieci milioni (lire s'intende) regalane uno; lui sarà contento; tu di più, perché in quel momento avrai risparmiato nove milioni. Sacramentava, e scazzottava la scrivania Enzo era una miniera di battute, motteggi, aforismi; parlare con lui era come consultare il calendario di Frate Indovino; spiritoso e incazzoso, era in netto contrasto con la sua immagine televisiva da parroco mite. Nei momenti di furia sacramentava e scazzottava la scrivania con vigore liberatorio. Si placava subito e, testa bassa, si rimetteva a lavorare.

Da fessi polemizzare o discutere con lui. Le argomentazioni non erano il suo forte. Ti fulminava con una stoccata. Durante una riunione in Rai, non ricordo a proposito di cosa, mi permisi: per tua informazione... Non gli era andato a genio l'incipit e mi interruppe: accidentalmente mi trovo anch'io nel ramo dell'informazione, e da te non mi aspetto notizie ma idee, ammesso te ne possa venire una. Mi sarei sprofondato. Da allora prima di aprire bocca, conto fino a dieci. Enzo nell'ultimo decennio è stato parecchio lodato; in passato parecchio denigrato e calunniato.

Si malignava che avesse dei "negri" a disposizione, cioè giovanotti che scrivevano nella sua bottega per quattro soldi, e che lui si limitasse a sistemarne la prosa. Di qui la sua mastodontica produzione. Falso. Era un accentratore. Non si fidava di nessuno. Erano sue anche le virgole. Noi della squadra eravamo semplici manovali. I più fortunati e stimati avevano il diritto di accompagnarlo a bere il caffè. Non sono mai riuscito a precederlo alla cassa.

Certe sere abbiamo cenato insieme. Se non mangiavi quanto lui - impossibile - si inquietava: stai male? Arrotolava le tagliatelle con lo stesso impegno con cui vergava gli articoli: la faccia praticamente nel piatto; arrotolava e masticava senza requie. Uno spettacolo. Terminato il pasto, tirava un profondo sospiro e con lo sguardo preso diceva: mi girano i "maroni" (con una erre) perché continuo a ingrassare. Si scioglieva al secondo bicchierino Aveva una piccola collezione di Cognac e Armagnac. Non doveva pregarmi per bere con lui. Al secondo bicchierino Biagi si scioglieva in racconti che tenevano inchiodati al tavolo ore e ore; aveva conosciuto mezzo mondo e di ciascun personaggio conservava un ricordo: aneddoti, flash.

Era un memorialista formidabile, un bozzettista e un caricaturista di straordinaria efficacia. Parlava solo lui. Tutti zitti ad ascoltarlo. Meritava. Se per caso, in una pausa del suo discorrere colorito, ti inserivi per un'osservazione, si scocciava. Dei problemi del prossimo gli importava sì e no. Il monopolio dei problemi era suo: la Rai, Berlusconi, il cuore, il Corriere, l'ultimo libro. Eppure era generoso. Se rimanevi senza lavoro, si sbatteva per trovartene uno buono: telefonava a Tizio e Caio assicurandoli che assumendo te avrebbero fatto fortuna. Sbrigava ogni pratica in fretta. Non ti dimenticava, non ti abbandonava. Aveva sofferto e non sopportava di veder soffrire.

Lo conobbi al Corriere della Sera, mi pare nel Settantotto. Sedevo al tavolone della sala albertiniana, illuminata da lampade che davano luce a noi scrivani addetti ai titoli e a correggere articoli. Entrò con passo pesante da montanaro, il parquet scricchiolava sotto le suole. Si diresse verso il capo, Carlo Galimberti, calvo e gli occhiali che scivolavano sulla punta del naso. Parlottarono. Tesi le orecchie senza comprendere. Fingevo di leggere un pezzo. Una mano si appoggiò sulla mia spalla: "Sei tu Feltri?". Mi voltai intimidito accennando ad alzarmi. Comodo, comodo, mi disse Biagi. Mi piaci come scrivi, farai strada, ti legge anche Sandro Bolchi. E se ne andò senza attendere risposta. In realtà Enzo penso che apprezzasse la cura con cui passavo la sua rubrica "Strettamente personale". Sia come sia, di lì a qualche mese fui reclutato nella sua squadra. Gliene fui e gliene sono grato.

Biagi non insegnava se non con l'esempio. Ti consentiva di rubargli il mestiere. E lavorandogli accanto ho compiuto tanti furti. Per lui la notizia era come il maiale: non si butta via niente. La prendeva e la rovesciava, la scarnificava e ne dava al pubblico l'anima. La sua scrittura è inimitabile. Nervosa e pudica, spiritosa e sentimentale, essenziale e commemorativa, quanto di meglio per arrivare allo stomaco del lettore. Biagi era terrorizzato dalle ripetizioni e dagli aggettivi. Il suo top tecnologico era la penna a sfera. Con la quale Enzo ha scritto centinaia di articoli e migliaia di libri, sceneggiature televisive, domande per interviste, facendola scorrere sulle righe di taccuini da stenografo, sempre gli stessi per settant'anni. Una grafia pessima e decifrabile soltanto dalla sua segretaria che provvedeva a battere a macchina o a dettare ai dimafonisti. Rare correzioni, rarissimi pentimenti e riscritture.

Qualcuno, sfottendo, definì Biagi il Fenomeno. Ma lo era davvero. Un impressionista della biro, un artigiano che in alcuni momenti ha sfondato la barriera dell'arte. Il romanzo "Disonora il padre", rigorosamente biografico, è divertente e struggente; l'avventura di un uomo partito povero da Pianaccio, Appennino toscoemiliano, con in tasca il diplomino di ragioniere, e arrivato a Milano attratto da un posto precario: caporedattore a Epoca, che stava fallendo. Un anno più tardi lui era direttore. La rivista in nove anni salì da 70 a 500 mila. In pieno miracolo editoriale, Enzo fu pregato di togliere il disturbo. Non leccava i politici E lo allontanavano Andò alla Stampa di Torino. Poi direttore del Tg1 che rivoluzionò. Abolì il taglio dei nastri e le leccate ai politici. Inaugurò un settimanale d'attualità. E ancora una volta sul più bello fu allontanato a causa di interferenze del Palazzo. Altri tempi, si dirà. Ma i tempi sono sempre funesti per chi non si assoggetta alla volontà dei potenti e dei prepotenti.

Occorre aggiungere che Biagi non era appassionato di politica, non l'ha mai seguita né analizzata né compresa. Non era nelle sue corde di cronista più portato a narrare che a interpretare. Aveva delle simpatie e delle antipatie che non controllava e non nascondeva. Di qui le sue evitabilissime disgrazie. Gli stava sulle scatole Craxi, e lo diceva ogni due minuti. Gli stava sulle scatole Berlusconi, e non pubblicava un articolo se non elencando almeno venti difetti del medesimo. Invecchiando, si diventa ossessivi. E lui lo era. Sicuro. Aveva molte qualità e moltissimi difetti, esaltati dall'onnipotenza che prende chi ha successo. L'ha fatta pagare ai suoi detrattori e loro l'hanno fatta pagare a lui. Questa è la vita, questo è il mondo. E pensare che Biagi e Berlusconi si somigliano: due supposti padreterni con un limite molto umano, quello di trascurare che non lo sono, e che viene un giorno in cui la candela si spegne e la processione finisce. Ed è pronta la livella".

(Vittorio Feltri Libero 7 novembre 2007)

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