venerdì, ottobre 26, 2007

la coppia del terzo millennio

A Genova, un manager quarantenne rimane disoccupato, espulso dall’azienda in parte sua perchè gli altri due soci lo ritengono non abbastanza «moderno», troppo ostile ai loro metodi (licenziamenti, tagli di spese, produzione trasferita all’estero). Per mesi non dice nulla alla moglie Margherita Buy, restauratrice che sta laureandosi in storia dell’arte, alla figlia che insieme con il ragazzo amato (deplorato dai genitori) ha aperto un bistrò. Poi parla: ha cercato lavoro ma non l’ha trovato, debbono vendere la casa per estinguere il debito con la banca, venderanno la barca, anche lei dovrà lavorare. La moglie è risentita per non aver saputo nulla prima: con il pragmatismo e la resistenza delle donne prende a lavorare in un call center. Lui ha incontri per il lavoro sempre più deludenti, mortificanti: richiede a un amico sei milioni prestatigli anni prima per sentirsi rispondere con una bugia, «te li ho già restituiti». Sta a casa, legge gli annunci sui giornali, fa la spesa, passa l’aspirapolvere, guarda la tv, fa la lavatrice. Soffre: il lavoro non è per lui soltanto un’abitudine, una misura della propria condizione sociale, uno stipendio per sopravvivere, è anche un impiego del tempo, una fuga dall’ozio devastante. Di fare nulla non ne può più. Gli offrono un lavoro di pony express, accetta. Dall’auto la figlia lo vede correre a consegnare buste, e si addolora.

I rapporti coniugali diventano difficili; la nuova casa è piccola, soffocante; il tentativo di fare l’imbianchino con due suoi ex operai pure disoccupati fallisce; il tradimento svogliato della moglie divenuta segretaria non aiuta. A lui non importa più niente di niente. Passa i giorni muto e solo, buttato sul divano. Guarda dalla finestra, non si occupa più della casa. Li salvano l’amore e l’estasi della bellezza: l’affresco al cui restauro la moglie lavorava si rivela prezioso, il bisogno di restare insieme e amarsi è più forte di tutto. Finale racconsolante poco credibile; l’analisi della famiglia borghese proletarizzata è molto intelligente e toccante; Genova è il luogo stupendo d’una pessima situazione.

Silvio Soldini con Giorni e nuvole ha fatto un film bello che per la prima volta analizza nel profondo, negli effetti sulla personalità smarrita, nel dolore individuale, quella mancanza di lavoro divenuta per tanti una forma nominalistica, un problema che riguarda gli altri: e offre ad Antonio Albanese e a Margherita Buy la migliore occasione della loro vita di bravi attori, còlta benissimo.

«Racconto lo stupore di due persone che sono certe che la vita abbia preso un corso ben definito e che, improvvisamente, scoprono che tutto è cambiato in maniera inimmaginabile». «Il problema principale - ha aggiunto - è stato quello di riuscire a non farsi trascinare verso il finale drammatico e tragico a cui tutto sembrava condurre. Io volevo che i due protagonisti si mettessero uno di fronte all’altro, si spogliassero di tutto e decidessero di essere sinceri chiedendosi: cos’è la cosa più importante del mondo per me?».
La storia del manager che si trova senza lavoro, che deve cambiare casa e abitudini, che tenta di fare altri lavori anche molto poco qualificati pur di uscire dalla depressione, che rischia di perdere l’amore della moglie e che, al contempo, comprende meglio la figlia e il suo compagno, trova continuamente riscontri reali nella vita.

Soldini riflette sull'equazione tra lavoro e tempo: il lavoro organizza il nostro tempo, se si lavora poco si perde tempo, se si lavora molto si guadagna tempo. Quando il Michele di Albanese perde il lavoro entra perciò in un tempo dell'attesa e dell'introspezione. Incapace di ri-organizzarsi la vita senza i ritmi dell'azienda, il protagonista vive una progressiva perdita di definizione.

Michele appartiene alla borghesia alta e intellettuale, una classe che ha fatto del lavoro la misura di ogni cosa e la fonte della propria identità. Elsa, abituata a riflettersi nel lavoro del marito e a godere del prestigio sociale e delle opportunità (laurearsi e fare senza compenso la restauratrice) della loro condizione, trova uno, due, tre lavori per provare a rientrare nella "normalità" da cui sono usciti. I due protagonisti sono avvolti da un velo di sofferenza non detta, da una cortina impenetrabile che rende inutile qualsiasi contatto umano. Capiranno insieme, distesi a contemplare l'affresco del Boniforti, che è l'amore (e non il lavoro) a "produrre" valore e realizzazione personale.

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