domenica, aprile 29, 2007

Padre nostro che sei nei cieli.

“Iniziamo con l’invocazione “Padre”. Nella sua interpretazione del Padre nostro Renhold Schneisr scrive a questo proposito: “Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio” (p.10). L’uomo di oggi però non avverte immediatamente la grande consolazione della parola “padre”, poiché l’esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall’insufficienza dei padri. Così dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa “padre” propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto (“perfetto”): “ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni…” (Mi 5,44s). “L’ amore sino alla fine” (cfr. Gv 13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente “Figlio” e ci invita a diventare a nostra volta “figli” - a partire da questo criterio.

Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: “Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!” (Mt 7,9ss). Luca specifica le “cose buone” che dà il Padre, dicendo: “Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La “cosa buona” che Egli ci dona è Lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi – questo è il dono dei doni, la “sola cosa di cui c’è bisogno” (cfr. Lc 10,42). La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.

Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall’amore per i nemici e a trovare in ciò la propria “perfezione” così da diventare noi stessi “figli”, allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. “Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: “mostraci il Padre” (Gv 14, 8s). “Signore, mostraci il Padre”, ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità. Il Padre nostro non proietta un’immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo – da Gesù – ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.

Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzitutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l’ essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l’uomo in modo tutto particolare. Il salmo 33, 15, secondo la traduzione latina, dice: “Egli che ha plasmato i cuori di tutti (…) fa attenzione a tutte le loro opere”. Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell’immagine biblica dell’uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale “figlio” di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l’uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.

Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è in modo unico “immagine di Dio” (cfr. 2 Cor 4,4; Col 1,15). In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l’uomo a “sua immagine”, guardò in anticipo a Cristo e creò l’uomo a immagine del “nuovo Adamo”, dell’Uomo che è il canone dell’umanità. Soprattutto, però, Gesù è “il Figlio” in senso proprio – è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio.

Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere Figli diventa l’equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come “figlio” e “figlia”. “Tutte le cose mie sono tue”, dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (cfr. Lc 15,31). La parola “Padre” ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all’inizio della storia del peccato dell’umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che “essere figli” non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l’esistenza umana, le dà senso e grandezza.

Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste: “Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò” (Is 66,13). “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell’amore materno di Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa “grembo materno”, ma poi diventa il termine per il com-patire di Dio con l’uomo, per la misericordia di Dio. Nell’Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell’uomo o anche sentimenti di Dio, così come “cuore” o “cervello” sono ancor oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l’Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell’esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l’uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.

Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. “Madre” nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell’uomo e della donna. Le divinità-madri, che circondavano il popolo d’Israele come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un’immagine del rapporto tra Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all’immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. Partendo da questo presupposto, l’essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un’emanazione del grembo materno dell’Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti.

Al contrario, l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l’esclusione delle divinità-madri l’Antico testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’amore materno, “madre” non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene i mente o come ci piace. Sol così preghiamo nel modo giusto.

Joseph Ratzinger Benedetto XVI “Gesù di Nazaret” dal Capitolo V : “La preghiera del Signore”

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